Lessico famigliar/scolastico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La mia seconda è una classe di fastidiosi chiacchieroni, egocentrici e molto molto infantili. Spesso, come tutti i preadolescenti – non tutti ma quasi, spero – si attivano a fare qualcosa prima che entri in funzione il cervello, e quel qualcosa è invariabilmente un atto realmente sciocco e senza senso. Per dire, durante la ricreazione P. prende da un banco l’evidenziatore di A. e se lo infila nelle mutande – o giù di lì! Orrore da parte di A. che, strillando come un’aquila, chiede a noi, presenti nell’aula ma a distanza banco/cattedra, di essere vendicata. Che P. abbia un approccio da Rocco Siffredi nei confronti delle compagne non ci è dato di sapere, ma dubito che l’intenzione sia stata quella – P. è una specie di nanetto, tutto reale stupidaggine. Su insistenza dell’offesa la testa di P. è stata offerta al capo su un piatto d’argento e P. ha terminato la settimana a casa, sospeso dalle lezioni per una manciata di giorni. Parlando alla classe dell’ evento capitato e non solamente di quell’evento in particolare, mi è venuta in mente una parola che mio padre diceva a proposito dei gesti senza senso, sciocchi quanto basta per potersene pentire in seguito, “ la fatuegna “. La fatuegna è uno stato della persona cretina che non è abituata al ragionamento, applicabile almeno all’ottanta per cento dei componenti della mia classe esuberante. Sicchè ogni volta che uno dei tanti compie una cretineria, il mio commento ad alta voce è: Cos’è questa? Fatuegna prima puntata? E via così, fino ad arrivare all’altra mattina. Il giochino della fatuegna impegna quelle che, ragazze quasi sempre, ridacchiando seguono le vicende scolastiche e mi suggeriscono i numeri delle puntate. L’altra mattina Geografia, sgomenta di fronte all’ennesima sciocchezza, mi ha guardata. Dal banco di fronte al mio si è alzata la voce di M.: Prof cos’è, fatuegna decima puntata? L’ho guardata, ho guardato Geografia spiegandole brevemente il “ giochino “ e in risposta alla domanda, scoraggiata da cotanta stoltaggine le ho detto: No M. siamo ormai arrivati alla seconda stagione. Seguono ulteriori approfondimenti sulla stagione appena iniziata! Da scriverci un libro, sulla fatuegna!

O. S. T.

 

 

 

 

 

 

 

 

Se vado indietro con il tempo e la memoria, il primo ricordo che ho di me stessa alle prese con la musica – con lo strumento che produceva musica in casa dei miei genitori –  è un ricordo visivo prima che sonoro. “ Vedo “ le mie piccole mani scorrere sulle serrandine di legno che chiudevano i vani dove erano conservati i 78 giri, dischi conservati in un mobile imponente che conteneva tutta la curiosità di una bambina piccolissima. E lo vedo davvero quel mobile, quasi un totem, nei fianchi gli oggetti pesanti che messi sul giradischi producevano i suoni che mi facevano ballare e divertire. All’esterno una radio, compagna severa se erano i notiziari a parlare, allegra compagnia altrimenti, se era la musica a farla da padrona. Mia madre diceva sempre che era stato quello il primo mobile ad entrare in casa, prima di ogni altro oggetto, per volontà paterna. I miei genitori erano ballerini provetti e la musica dei ballabili ha sempre accompagnato la mia infanzia. Non c’è mai stata da allora, una volta, un’occasione, un giorno qualsiasi in cui non abbia ascoltato musica. Una colonna sonora ininterrotta, che dura da sempre. Le scelte della ragazza che sono stata hanno prevalso, poi, sugli ascolti casalinghi. La scoperta dei Beatles nella preadolescenza, la musica folk americana, Bob Dylan. I miei ricordavano ancora – probabilmente come una specie di incubo sonoro – il concerto all’arena di Milano di Joan Baez che avevo masterizzato in una “ cassetta “ e che mandavo, in un infinito rewind, ad alto volume. E le sere, sul tardi, passate davanti alla radio ad ascoltare PopOff, con dei giovanissimi conduttori di qualche anno più grandi di me. Poi la “ scoperta “ del jazz e della musica lirica, le canzoni dei cantautori imparate  a memoria, “ sarà la musica che gira intorno, quella che non ha futuro “, la musica da non consumare, la musica compagna totale e assoluta. Chi, per cattiva abitudine, non ascolta musica è una persona “ povera “, priva di un mondo sconfinato fatto di colori e calore, perchè poi la musica altro non è che la colonna sonora originale della nostra vita.

Maladie

Qualche sera fa, durante la presentazione di un libro scritto da un’amica di lunga data, mi è tornata in mente zia Mimì. Una delle cugine di mia madre aveva avuto, in gioventù, la tubercolosi. Si era in guerra, tutto scarseggiava, Mimì era di salute cagionevole e si ammalò. La mandarono in un sanatorio di montagna, lontanissima da casa, lontanissima da quei pettegolezzi sorti intorno alla sua persona, lontanissima dai possibili fidanzati che avrebbe potuto avere e che non ebbe. Come un’eroina romantica alle prese con una malattia che allora non perdonava, non ebbe tuttavia ne’ il conforto di un’opera lirica dedicata, ne’ tantomeno la pietà o la compassione dei compaesani perchè, una volta tornata a casa, perfettamente guarita, fu scansata come se fosse affetta ancora dal mal di petto che l’aveva tormentata da ragazza. Anche in famiglia il male fu tenuto “ al guinzaglio “, nessuno ne parlava era qualcosa che “ faceva vergogna “. Seppi da mia madre, moltissimi anni dopo e dopo che zia Mimì sposò un ricco vedovo di un paese vicino al suo, che la tubercolosi non aveva avuto la meglio su quella donna. Mi fu raccontata tutta la storia di Mimì, alla sua morte avvenuta in tarda età, in barba alle maldicenze e ai pettegolezzi. Perchè, dunque, mi è tornata alla memoria Mimì? La presentazione del libro dell’amica è stata una di quelle occasioni durante le quali si raccolgono intorno all’autrice e al relatore, un nutrito gruppo di amici e conoscenti già al corrente di quanto è raccontato nel libro e perchè. Non vedevo A. da tempo e solo per caso ho saputo di questo suo approccio alla scrittura. Il libro racconta della malattia del marito che una mattina si è svegliato completamento paralizzato, affetto dalla sindrome di Guillain Barré. La disperazione iniziale dell’amica ha dato spazio alla speranza, nonostante le conseguenze e lo stato di infermità invalidante, del suo compagno di vita, che ancora è presente. La scrittura, sotto forma di diario, riporta le riflessioni di una donna dalla vita normale, per certi versi banale, madre e moglie a tempo pieno, la cui vita si trova in una mattina qualsiasi nel pieno di un dramma. Perchè Mimì, allora? Perchè l’approccio alla malattia è diventata esperienza da consumare, quasi da sbandierare. Mimì ha dovuto nascondere come una colpa la sua esperienza di vita, adesso invece si racconta di tutto e con dovizia di particolari. La scrittura vale come catarsi, la scrittura è liberatoria, ma sono convinta che il dolore di una malattia debba portare con sè un minimo di pudore e la disperazione debba trovare il tempo di stemperare in tempi lunghi quando tutto assume il contorno di un ricordo.

Vita

ilriccioR375_26dic09Vennero a stare nel piccolo appartamento a piano rialzato, riservato, nell’intenzione di chi aveva dato loro l’incarico, ad una piccola famiglia di custodi. Vennero ed erano una tribù,  sembravano davvero calati come Unni dalle montagne dell’avellinese da dove erano partiti, pieni di usanze e superstizioni, forniti dell’immagine sacra della Madonna di Montevergine, venerata ai limiti dell’idolatria. In due stanze si erano accomodati figlie e genitori, un paio di bambini e nessun altro uomo, a parte il patriarca. Per entrare nel palazzo bisognava suonare al loro campanello. Con fare chiassoso, curioso, venivano ad aprire e con uno strano e sonoro accento ti chiedevano: Dove vai? Dopo le prime volte sapevano bene che sarei andata al terzo piano, dove condividevo i compiti e le opere di Verdi con la mia compagna di scuola, N. Così ci abituammo in fretta al folklore dei custodi, agli odori intensi e saporiti che si infilavano per le scale alle quali loro accedevano solo per le pulizie. Non c’erano finestre in quelle due stanze e l’unica apertura, l’ingresso della guardiola, non riusciva a trattenere nessun tipo di intemperanza, con grande fastidio dei ” signori ” del primo piano, loro datori di lavoro. Li vedemmo andar via chiassosi, così come erano venuti, in un primo pomeriggio d’estate. Commentavano tra loro, ad alta voce, quella partenza forzata, tra le masserizie accatastate e le tante parole anche qualche invettiva indirizzata ai ” signori ” del primo piano. Si venne a sapere più tardi, io e N. ascoltammo non viste, che la figlia più piccola, intraprendente più delle altre evidentemente, aveva iniziato ad incrementare i magrissimi introiti famigliari, ” facendo la vita “. Pensai allora che vivere costituisse un grave pregiudizio per poter mantenere un lavoro, un curioso caso di contraddizione nei termini: per poter vivere bisognava lavorare, ma facendo la vita, vivendo di fatto, il lavoro lo perdevi. ( Tutta la storia m’è venuta in mente stamani, mentre una signora bionda, non più giovane, al braccio di un’altra che poteva essere forse la figlia, mi ha attraversato la strada intanto che tornavo a casa in macchina. É lei, mi sono detta, quella che ” faceva la vita “. )

Il pullover che mi hai dato tu

aran_teddies_1Un articolo in Alcuni aneddoti dal mio futuro mi ha puntualmente presentato il conto in termini di fatti accaduti o meglio oggetti appartenuti. Lì si parlava di maglioni e di anni ’80, e non solo di quello, anzi i maglioni erano marginali nel contesto, ma ho cominciato a ricordare ugualmente. Lavoravo allora presso uno studio associato ing + ark. Il mio ruolo era quello di disegnatrice tecnica, ma anche centralinista, PR con le maestranze che frequentavano lo studio, architetto di paesaggi e d’interni. Eravamo uno studio fresco d’impianto, si lavorava, ma anche no. Nei tempi morti mi riscoprii una insana passione per il tricot. Tricottare è come andare in bicicletta, una volta imparato non lo dimentichi più. Io avevo appreso in un memorabile triennio di scuola media, quando tecnologia si chiamava ancora educazione tecnica e la mia prof, poiché eravamo tutte bimbe, aveva pensato bene di insegnarci l’arte dell’uncinetto e della maglia ai ferri, piuttosto che le proiezioni ortogonali. Così mi procurai ferri da maglia, lana e cominciai a darmi da fare. In queste cose sono sempre stata piuttosto puntigliosa. Dovevo produrre un maglione, non mi accontentavo di approssimazioni e, con giornali alla mano, producevo maglioni. Venne fuori dalle mie mani ogni specie di sperimentazione laniera, maglioni irlandesi, vestiti di lana, giacche idrorepellenti. Alcune cose erano davvero ben riuscite, posso asserirlo con un certo orgoglio. Però la cosa contagiò anche una serie di persone che allora mi stavano vicine, le mamme, la mia, la mamma di mio marito, allora ancora fidanzato, la mamma dell’ark. E le mamme si sa, non hanno il tempo di modernizzarsi. La mia si esibì in un dolcevita ” cannolè ” che non avrebbe fatto una brutta figura neppure sul busto di Giovanna d’Arco prima dei suoi impegni in guerra, come cotta in maglia – e ferro? può essere. La seconda mamma, la suocera, decise ad un tratto che avrebbe dovuto mostrarmi la sua bravura nel confezionarmi un maglione primaverile in cotone. L’errore di fondo fu la scelta del colore, un terra siena bruciato mélange, triste triste. Poi la misura, oversize – è vero, sì, allora si usavano maglioni molto ampi, ma quello, di cotone, con l’uso si era ” appeso ” con conseguenze poco piacevoli. Ma potevo dispiacere alla suocera? L’altro esperimento fu fatto dalla mamma di V. l’architetto, che esibì per un intero inverno un maglione lavorata a grana di riso, con ferri del cinque e lana spessa un dito. Per l’occasione coniammo il termine ” maglione zerbino ” rimasto poi nel lessico famigliare. Adesso vedo in giro maglioni veri finti fatti a mano e ricordo. Il tempo di tricottare non riesco più a trovarlo. Attendo con ansia l’avvento di nipotini sui quali sfogare le mie velleità di tricoteuse. Così che anche loro possano ricordare, un giorno,  il pullover che mi hai dato tu.

Lo zio

I_promessi_sposi-362Entrò a far parte della famiglia sposando la terzultima delle sorelle. A memoria d’uomo non s’era mai visto un nobile, sia pure spiantato e decaduto, sposare una contadina, ma tant’è anche i nobili hanno appetiti e tutti terreni come la famiglia dei contadini ebbe modo di verificare in seguito. Spalleggiato dal padre conte era stato mandato a studiare all’estero, all’accademia delle belle arti, come si addiceva a quel figlio che non solo di arte ma anche di parte mostrava non averne. Aveva così sperperato denaro, tanto, anche le doti delle sorelle che, senza più nulla da offrire se non la spocchia nobile, non avevano avuto occasione di maritarsi e avevano scelto di rimanere zitelle piuttosto che ripiegare su un matrimonio di convenienza come l’unico e invidiato fratello. Gli anni all’estero dello zio erano passati in fretta tra le lenzuola di  talune prezzolate incontrate nei caffè dove amava rifugiarsi e di qualche compagna di studi più intraprendente. Ne aveva ricavato un senso di onnipotenza che molto aveva a che fare con il contenuto dei suoi calzoni, ritenuto a ragione, la sua, come qualcosa di irresistibile di cui andar fiero, convinto com’era che le donne apprezzassero e tanto. In realtà quelle stesse ritenevano più interessanti i mezzi più materiali e visibili di cui lo zio era prodigo, convinte anche loro che la fortuna di una ragazza risiede tutta in quelle stesse parti basse, bassissime in realtà se si considera la venialità con cui certi ragionamenti venivano messi a punto dall’una e dall’altra parte. Ragionamenti simmetrici, tuttavia, mossi da un interesse tutto momentaneo e terreno. Mentre la terzultima sorella sembrò non rendersi conto dei calcoli e dei ragionamenti, anzi. La meschina, lusingata da tante attenzioni galanti, si innamorò perdutamente del bel tomo ritornato in quel paese dimenticato da Dio, con l’aura di quello che aveva conosciuto il mondo e tanto bastava ad entrambi. Intanto lo zio, elevato a tale rango di parentela stretta dallo status maritale, lui sì aveva avuto modo di rendersi conto quasi subito di quante e quali gonnelle ci fossero nella famiglia contadina e con tale consapevolezza aveva considerato giusta la scelta di sposare una di quelle gonnelle. Le sorelle erano tante, ma anche le nipoti acerbe e meno acerbe, e si affacciavano alla vita rispettose della parentela e taciturne su certe preferenze dello zio. Allo zio piacevano tutte e con le sorelle della moglie contadina faceva valere la galanteria, il corteggiamento per posa, appreso come arte nella famiglia di origine. Aveva, però, mantenuto una facciata da schiatta nobiliare e aveva separato la moglie contadina dalle altre, portandosela ad abitare in città. Abbandonata a se stessa nella casa del marito, grande e disadorna e mal messa, pativa la lontananza dalle sorelle e la solitudine, poiché suo marito passava le giornate nei circoli privati a sperperare quel poco che rimaneva del patrimonio di famiglia e a rendere interessanti, dunque pieni di interessi, i pomeriggi di certe donnine. Quando seppe dello stato, quello sì davvero interessante, della moglie, decise che sarebbe stato conveniente rispedirla a casa dalle sorelle. Le fece visita un paio di volte, giusto in tempo per passarle un fastidio che gli era stato regalato durante la permanenza nella dimora più visitata e chiacchierata della città. Durante il soggiorno nella casa contadina della moglie gli sembrava di essere in un stato continuo di ebbrezza, gli era sufficiente allungare una mano per cogliere la rotondità di un seno acerbo nascosto alla vista ma non al tatto, l’arrendevolezza vergognosa delle ragazze, nipoti della moglie gravida, che scambiavano le sue calcolate e pruriginose attenzioni per una forma di interessamento affettuoso, senza però avere il coraggio di raccontarle, quelle carezze, ad anima viva, meno che mai alle madri, circuite a loro volta dalle chiacchiere del bel tomo. Nacque una bimba, buona sola ad aprire le gambe, fu il commento paterno dello sciagurato. Finì che un medico presso il quale si era rivolto per via di quell’antico fastidio che di tanto in tanto tornava a ravvivarsi, visitandolo, gli diagnosticò un male incurabile, proprio all’oggetto costante delle sue passioni. Si sentì tradito come se un vecchio compagno d’avventura gli avesse voltato le spalle. Tornato a casa, presa da un cassetto la vecchia pistola di suo padre, sparò un colpo al traditore. Mancò le parti vitali per poco. Operato d’urgenza gli fu rimosso anche il tumore, con quel che rimaneva. Passò il resto della sua vita a ricordare, innocuo e senza più desideri.

Midnight’s squaw

na-woman-2-apacheUn gioco simmetrico di sguardi in una notte lontana. Come ti ” corteggiammo ” giovane batterista, in una casa del popolo, durante un concerto suonato a due passi, tanto da sentirci immerse nel suono, tanto da sentirci immerse in occhi lago azzurro, curiosi e simmetrici? – valevano gli sguardi allora, valeva sentirsi appagati anche solo da quelli. Avremmo dovuto limitarci al gioco, ma non serviva e non bastava quella sera, gli sguardi erano audaci e bisogna lasciarti con un appuntamento di mezzanotte scritto in fretta su un biglietto. Per poi  saperci stupite e deluse, solo dopo averti visto arrivare, nascoste dietro un muro complice, con tanti, troppi amici, non previsti e non graditi. Sei rimasto nei racconti di memoria, come quello che fu mancato da due squaw di mezzanotte.

Fichi d’india

fichi d'indiaFatto settembre, all’uscita del Supercinema, stazionava il carretto carico di fichi d’India. Tra la fine del primo spettacolo e l’inizio di quello delle dieci, un uomo vendeva i frutti spinosi già mondati. Con una tecnica che gli apparteneva per la lunga pratica, li spazzolava e incideva la corteccia spessa e carnosa con un piccolo coltello a serramanico. Cavava poi il frutto umido e colorato di arancio carico divaricando i lembi incisi, quasi una operazione a cielo aperto, come estrarre un figlio dal grembo materno. Davanti all’uomo, in attesa, incantati dai gesti sapienti e veloci, gli avventori già pregustavano il momento in cui avrebbero affondato i denti nella polpa cedevole, composta da quei semi minuscoli impossibili da masticare. Avrebbero comprato due, tre, quanti frutti? Tanti quanti il senso di sazietà ne avrebbe tollerati, tanti quanti l’attesa ne avrebbe consentito. Poi, così come erano venuti, andavano, e l’uomo rimaneva in attesa della seconda uscita dal cinema, quella notturna. Allora gli avventori erano meno pazienti e avevano fretta di guadagnare le strade illuminate dai lampioni. Anche l’uomo si poneva come bestia da soma tra i bracci del carretto di legno e tornava a casa, le mani che odoravano di selvatico e di spine.