La guerra di Piero ( una ballata con disegni )

Se solo una ballata e una manciata di disegni avessero il potere di cancellare le guerre da ogni dove del mondo ( prima su tutte quella che ci preoccupa maggiormente, in Ucraina, con prove generali di guerra atomica in atto ) sarei disponibile a postare ogni giorno, per sempre, disegni e parole, sempre quelli, come atto scaramantico perpetuo, per scongiurare e per inibire pensieri e azioni di morte.
I disegni sono di A. il riccioluto e bellissimo ragazzo blu, alunno d’altri tempi, fatti di getto mentre lui e i suoi compagni ascoltavano “ La guerra di Piero “ di De Andrè.

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno…

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Ma tu no lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera
E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi

( La guerra di Piero, Fabrizio de André 1966 )

Il Patatoso

Presa da furor sacro – simile a quello che muoveva le gesta della (in)dimenticata Marie Kondo… ve la ricordate, no, quella curiosa signora che aveva come unico obiettivo il KonMari o del riordino felice? – insomma emula dei diktat konmareschi mi sono attrezzata a far diventare carta da macero un bel po’ di circolari scolastiche vetuste come il cucco, agende che ricordavano le guerre puniche – esagero, suvvia! – e altre reminiscenze in formato carta scritta. Nel separare i fogli usati di un’agenda del 2014, da quelli buoni per fare i pizzini, in fondo alla pagina del dieci marzo trovo scritto “ Sei brutta Sei propio tu “. L’autore del piccato giudizio, il Patatoso! Che tenerezza nel ricordarlo e che carattere il mio dolce D.!
Ad ogni mio invito a fare secondo una regola, mi opponeva regolarmente una volitiva negazione e quando non riusciva a spuntarla, di nascosto mi sottraeva l’agenda e scriveva frasi che dovevano punirmi, Sei brutta, Sei cattiva, salvo poi pentirsi e chiedermi imbronciato di aiutarlo a fare qualcosa, in segno di rappacificazione. Di lui ho parlato molte volte nei post del 2014. Quello fu il suo ultimo anno di scuola media e aveva tredici anni, adesso, fatti due conti, ne ha ventuno. Un adulto che la società condanna ad un’eterna adolescenza senza che possa in autonomia cercare casa, pensare ad un futuro condiviso, così come è capitato a Milano qualche giorno fa.
La diversità spaventa, in qualsiasi modo si manifesti, ancora di più se si svela in maniera apparente, così da costringere i molti a fare confronti e paragoni, in modo da costringere gli stessi molti a rifiutare una diversità che li arricchirebbe. Davvero triste.

Vanno, anche le cose vanno…

Da uno a dieci quanto sarebbe stato “ conveniente “ aggiungere voce alle mille voci che hanno imperversato in ogni dove, in ogni luogo, in ogni storia, aggiungere voce alle voci che hanno raccontato di covid e scuola e storie personali e guarigioni e esperienze in tempi di covid? Insomma, ho taciuto. Perché insopportabilmente infastidita, perché insopportabilmente occupata ad occuparmi di non essere contagiata, perché non ci fossero contagiati in casa e in altri luoghi, amen. Così le cose sono andate, con cambiamenti tanti, con impedimenti, con imposizioni di impedimenti ad altri: di fatto classi intere da impedire, con ragazzi a distanza oppure in vicinanza, straniamento nel fare lezione ad una manciata di persone in una scuola di fatto vuota. Le cose sono andate. Spesso con grande fatica, sempre per abitudine – ché è possibile abituarsi anche a situazioni “ estreme “.
Da uno a dieci quanto sarebbe stato conveniente estremizzarsi ancora e ancora, per chissà quanto altro tempo?
È così che ho pensato di scrivere all’omino dell’ ufficio scolastico regionale, al signor Inps, per chiarire con loro, uno su tutti, il pensiero di pensarmi diversamente occupata altrove, invece che in un’aula scolastica. Sono al terzo giorno di quella condizione che chiamano “ essere in pensione “.
Al momento tutte le cose vanno…

Ma la mente mi autorizza a credere
Che una storia mia, positiva o no
È qualcosa che sta dentro alla realtà…

Che cos’è l’amor

immagine di Stephen B. Whatley

È da tempo che G. sembra essersi smarrito in chissà quali pensieri, nascosto dal ciuffo biondo riccioluto che gli rimane calato sugli occhi e dal suo sodale di poco avanti che lo copre alla mia vista e non di poco. Qualche giorno fa sostituisco Italiano e chiedo, che facciamo oggi? tutti mi consegnano all’unica alternativa possibile, almeno per me, interrogarli in storia. Sicché guardo G. e gli chiedo di parlarmi di Bismarck. Di tutta risposta mi sento dire, Prof non ho studiato perché non ho capito. Perplessa gli dico che è impossibile che non abbia capito e mi dispongo ad aiutarlo, leggendo “ l’incomprensibile “ paragrafo. Leggo soffermandomi su quanto mi sembra necessario e spiego, cercando di far riflettere G. e i suoi compagni. Qualcuno alla fine mi dice che spiego bene – meno male! – e chiedo a G. se adesso finalmente ha compreso. All’assenso del suo ciuffo biondo faccio seguire una neanche tanto larvata minaccia, domani ti interrogo. Il giorno seguente, dopo il puntualmente, G. hai studiato? Blonde on blonde mi fa: Prof non ho studiato, sono innamorato! Pare brutto da dire, ma m’è venuto da ridere – insomma G. ha pure tredici anni e se penso ai miei infantili tredici anni senza pensieri, mi sembra “ anomalo “ un tredicenne innamorato perso, invece che perdersi a giocare dietro ad un pallone per strada. Poi chiedo, curiosa come non mai, chi è “ l’oggetto “ delle sue attenzioni. Mi dice che si chiama G. stessa iniziale, ma nomi diversi, e che frequenta la prima classe delle superiori. Commento invidioso dei compagni di classe, Prof è una “ vecchia “! Mi intenerisce G. alle prese, anzitempo, con l’amor. Stamattina alla mia richiesta di aggiornamenti sullo stato delle cose, G. mi dice, Prof l’ho lasciata. E il compagno di banco, comprensivo, aggiunge, É una ragazza “ leggera “. Pesa poco?  il mio commento.

Che cos’è l’amor
È un sasso nella scarpa
Che punge il passo lento di bolero…

Ruoli

 

 

 

 

 

 

 

Durante il compito di grammatica, stamattina, ricevo un messaggio. Italiano mi scrive: Ho un problema qui in seconda, ho bisogno di una vice. La raggiungo di lì a poco. La vice in questione sono io, che ancora stento a crederci. È una condizione strana e curiosa, almeno per me, quella dell’essere vicaria nella mia scuola – sì, insomma, essere vicaria corrisponde al vecchio ruolo di vice preside, per dire. Non so per quale strana ragione mi percepisco sempre dall’altra parte, sono quella che dev’essere redarguita non quella che redarguisce, ma tant’è, sono stata eletta a furor di preside e in qualche modo dovrò entrare nel personaggio, prima o poi. In realtà i “ compiti “ a scuola e a casa sono sempre quelli, ma in più mi tocca il “ pronto soccorso “ pedagogico. Mi affaccio in seconda e, dopo un discorso ampio, ampissimo, sul portare a scuola il telefonino, sulle regole, sul bla bla bla, Italiano mi dice del problema: M. appena rientrato da una “ turnè “ casalinga di cinque giorni – sospeso dal grande capo per aver sottratto del denaro ad Arte, ma restituito – non contento del trattamento, ha filmato qualcosa in classe con il cellulare, non consegnato, come fanno gli altri, durante la prima ora. Dico ad M. che il telefonino va lasciato nello scatola predisposta, poiché è quella la regola che i suoi genitori hanno approvato il giorno in cui lo hanno iscritto a scuola e, dunque, gli dico di alzarsi dal banco e di mostrarmi il contenuto del suo cellulare, visto che Italiano sostiene la tesi del video girato in classe. M. mi guarda e obietta un diritto alla privacy che francamente gli tirerei sulla cocuzza, se la privacy fosse un qualsiasi oggetto contundente. Per sostenere il mio ruolo gli dico che sono costretta a sequestrargli il cellulare e che dovrò restituirlo ai suoi genitori dopo averli convocati. Al che M., un ca@@one grande e grosso, abbassa la testa sulle braccia e inizia a piangere. A quel punto, capita la situazione, gli dico di uscire fuori dall’aula perché voglio parlargli da “uomo ad uomo “. M. nicchia per qualche minuto, poi convinto dai compagni, viene fuori. M. mi supera di una spanna buona – è un pluri “ laureato “, quanti anni avrà, ‘sto stupido? – gli dico di prendere il cellulare che ha la sua prof, di portarlo fuori e, davanti a me, di cancellare il filmato fatto poco prima. M. felice dell’àncora che gli appena lanciato vi si aggrappa, e cancella un filmato del pavimento (?!?! ). Lo guardo, almeno credo di farlo, visto che i suoi occhi sono coperti da una coltre di capelli che lo fanno assomigliare ad un cane da pastore. Seria, gli dico di non riprovarci più. Torna in classe, felice? Speriamo bene.

E non abbiamo ancora iniziato!

Mi ha impressionato, e non poco, l’affermazione di A.  stamattina a scuola: Ci vuole tutto il caratteraccio di “ quella “ per far fronte ad un assembramento scolastico fatto di sole donne o quasi! – dove “ quella “ sta per una ben nota dirigente scolastica dal carattere decisamente sopra le righe, diciamo così.  Ora, non che abbia una particolare considerazione per la “ categoria “ alla quale appartengo di fatto; non mi piace avvallare comportamenti generalmente “ sciatti “ e dalla  tendenza a fare poco e male, che alcune di noi coltivano come fossero fiori rari. Tuttavia penso che siamo persone  e che certi modi di fare sono dettati dalla superficialità e dalla poca voglia di impegnarsi in qualcosa che si considera come un “ lavoro “ – e al nome “ lavoro “ potete dare una valenza qualsiasi, quella che più vi viene spontanea, per associazione. Dunque la superficialità nel fare le cose, un fare disdicevole, che non attiene, però, alla sola categoria insegnanti, ma che è riscontrabile, dati alla mano, in molti “ lavori “ – eccetto, forse, quei mestieri in cui se ti distrai ne va della tua integrità fisica oppure di quella delle persone che hai sotto i ferri, penso ai chirurghi, bontà loro. Tornando al “ caratteraccio “ della dirigente, sono convinta che applicare su larga scala modi di fare e di essere che rasentano la dittatura, siano controproducenti. Non abbiamo attraversato trent’anni di femminismo per arrivare ad essere le pessime copie di omuncoli qualsiasi. Fare del proprio modo di vita uno spauracchio per i più è solamente sterile desiderio di onnipotenza, la “ paura “ di non saper guadagnare il rispetto e la stima degli altri, se non attraverso il “ terrore “, da applicare soprattutto alle altre, le sottoposte, quelle che si considerano inferiori – mi chiedo se, nel momento in cui si partecipa e si vince un concorso da dirigente scolastico ti cambiano anche il cervello, in peggio, oltre che la qualifica! Tanta educazione e rispetto da applicare a larghe mani, la cura, in tutte le situazioni. Per i casi refrattari le fustigazioni corporali – scherzo! 😁

Grembiulini

Nelle foto scolastiche che le nostre mamme conservarono a futura memoria, foto rigorosamente in bianco e nero, noi bambine di allora avevamo l’espressione stupita di chi provava meraviglia che qualcuno potesse avere voglia e tempo di interessarsi a noi, facendoci un ritratto tutte assieme e con la maestra a fianco. Neri i nostri piccoli grembiuli di scuola elementare, con colletti bianchi e fiocchi blu. Ricordo un particolare del colletto, si poteva rimuovere con facilità perché  era attaccato al grembiule con dei bottoncini nascosti, così che la mamma, all’occorrenza, poteva lavarlo senza dover necessariamente lavare anche il grembiule. La differenza, tra una divisa e l’altra, stava proprio nei colletti. Qualche bambina era dotata di colletti più larghi del normale, magari ricamati o di pizzo. C’era sempre, nonostante il desiderio di uniformare, desiderio che nasceva dall’impostazione di non creare differenze, il “ pensiero divergente “ di qualche mamma che invece voleva, con il ricamo o il pizzo, rimarcare la differente possibilità economica – i colletti di pizzo erano senz’altro più costosi di quelli di piqué. E ancora ricordo la bambina con i capelli rossi, che sedeva nel banco davanti, che indossava un gran colletto bianco, molto più grande del normale del quale andava fiera. Una mattina, su quello stesso colletto, vidi vagare un puntolino nero. La mia compagna di banco mi diede di gomito e sottovoce, in un orecchio, mi disse: É un pidocchio! Fui ben felice di avere un piccolo colletto bianco non abitato da esseri in cammino. Erano tristi quei grembiulini, così neri, seri, sotto le nostre facce ridenti, sopra le nostre ginocchia mai veramente pulite, ginocchia quasi sempre sbucciate dai giochi di strada. Ebbi ancora, da adolescente, camici bianchi sulle minigonne, all’istituto d’arte, dove, da allieva della sezione ceramica, lavoravo l’argilla al tornio o decoravo inutili oggetti che portavo a casa, orgogliosa per averli forgiati e decorati. I camici dovevamo portarli sempre e comunque, in fondo non ne eravamo dispiaciute ci davano l’idea di una professione che per alcune di noi sarebbe arrivata poco dopo. Solo ai ragazzi erano concesse deroghe, salvo quando dovevano svolgere  i laboratori, come noi e con noi. La necessità di non sporcarmi di grafite mentre disegnavo planimetrie, e prospetti e sezioni – AutoCad sarebbe arrivato molto più in là –  nello studio tecnico dove lavoravo da ark arrivò più tardi, finita l’accademia di belle arti. I “ miei “ muratori, le maestranze che accoglievamo a studio, mi guardavano vestita di bianco e, divertiti, avevano l’impressione di avere a che fare con un medico. Dalle tasche del mio camice spuntavano sempre, coloratissimi, “ attrezzi da lavoro “, righelli, matite e colori. Ho portato il “ grembiulino “ dunque, fino all’età della ragione, senza che me potessi lamentare e con la differenza, rispetto ad altri con lo stesso indumento, che ad indossarlo ero io, con il mio essere uguale per appartenenza sociale al genere umano e diversa per il mio esserlo rispetto a tutte le altre persone del mondo, così come diversi siamo tutti. Non è un grembiulino che rende uniforme una classe di bambini, non si mascherano le differenze sociali e non, che ognuno porta con sè. Se l’intento del “ macaco da balcone “ è quello di livellare l’appartenenza sociale, allora sappia che ci sarà sempre una mamma qualsiasi a infilare, sul grembiulino, un colletto di pizzo che differenza fa. Se invece la storia è un’altra, se il dibattito pubblico è impostato sui pro e sui contro, perché così il macaco può far stornare i pensieri di tutti dai problemi veri che impegnano le ansie di chiunque in Italia, strategia “ finissima “ per chi come lui macaco è, per indole e pensiero, allora la faccenda è un’altra. Il grembiulino lo metta lui, avvezzo com’è all’uso improprio di divise altrui.

Lessico famigliar/scolastico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La mia seconda è una classe di fastidiosi chiacchieroni, egocentrici e molto molto infantili. Spesso, come tutti i preadolescenti – non tutti ma quasi, spero – si attivano a fare qualcosa prima che entri in funzione il cervello, e quel qualcosa è invariabilmente un atto realmente sciocco e senza senso. Per dire, durante la ricreazione P. prende da un banco l’evidenziatore di A. e se lo infila nelle mutande – o giù di lì! Orrore da parte di A. che, strillando come un’aquila, chiede a noi, presenti nell’aula ma a distanza banco/cattedra, di essere vendicata. Che P. abbia un approccio da Rocco Siffredi nei confronti delle compagne non ci è dato di sapere, ma dubito che l’intenzione sia stata quella – P. è una specie di nanetto, tutto reale stupidaggine. Su insistenza dell’offesa la testa di P. è stata offerta al capo su un piatto d’argento e P. ha terminato la settimana a casa, sospeso dalle lezioni per una manciata di giorni. Parlando alla classe dell’ evento capitato e non solamente di quell’evento in particolare, mi è venuta in mente una parola che mio padre diceva a proposito dei gesti senza senso, sciocchi quanto basta per potersene pentire in seguito, “ la fatuegna “. La fatuegna è uno stato della persona cretina che non è abituata al ragionamento, applicabile almeno all’ottanta per cento dei componenti della mia classe esuberante. Sicchè ogni volta che uno dei tanti compie una cretineria, il mio commento ad alta voce è: Cos’è questa? Fatuegna prima puntata? E via così, fino ad arrivare all’altra mattina. Il giochino della fatuegna impegna quelle che, ragazze quasi sempre, ridacchiando seguono le vicende scolastiche e mi suggeriscono i numeri delle puntate. L’altra mattina Geografia, sgomenta di fronte all’ennesima sciocchezza, mi ha guardata. Dal banco di fronte al mio si è alzata la voce di M.: Prof cos’è, fatuegna decima puntata? L’ho guardata, ho guardato Geografia spiegandole brevemente il “ giochino “ e in risposta alla domanda, scoraggiata da cotanta stoltaggine le ho detto: No M. siamo ormai arrivati alla seconda stagione. Seguono ulteriori approfondimenti sulla stagione appena iniziata! Da scriverci un libro, sulla fatuegna!

Marystar in Wikipedia *

“ Si discuteva dei problemi dello Stato, si andò a finire sull’hashish legalizzato “ come diceva il “ poeta “? No, certamente no, ma dell’ultima sortita del ministro Bussetti sulla scuola e gli insegnanti del Sud, sì, perdindirindina! E nel farlo avevo bisogno di “ rinfrescare “ la memoria di alcune di noi sugli “ scompensi “ compiuti ai danni della scuola nelle precedenti legislature. Mi è capitato di linkare alla voce “ Mariastella Gelmini “ in Wikipedia.  Con molto stupore ho appreso della capacità della stessa ex ministra – nero su bianco, e in bella mostra sulla sua foto di “ copertina “- di performance ardite praticate con le distalità inferiori. Ma qualcuno, laggiù nella landa sconfinata dell’aggiornamento wikipediano, si è reso conto dello scantonamento in odore di Youporn, ai danni di Marystar? 🙄 Non si finisce mai di imparare! 🤪

* Aggiornamento di stamattina, 11 febbraio: la scritta sessista e volgare è stata rimossa dalla pagina di Wikipedia dedicata all’ex ministro. Al di là dell’orientamento politico, non posso che rallegrarmi  dell’avvenuta rimozione.

La Shoah raccontata da G.

Jewish Star of David. Jude Cemetery in Cracow Ghetto. Kazimierz district. Poland. Auschwitz and Holocaust metaphor. BYCZESTUDIO VIA GETTY IMAGES

Qualche giorno fa Italiano ha letto in classe un brano tratto da un romanzo incentrato sulla Shoah, così come l’ha vissuta una bambina, la protagonista. Non è stato possibile parlarne il giorno dedicato alla memoria – era domenica –  quindi la lettura è stata rimandata a ieri l’altro. I ragazzi attenti, più o meno, hanno seguito le vicende della bambina rinchiusa nella Risiera di San Sabba a Trieste, prima, poi deportata ad Auschwitz. Il racconto faceva riferimento alle cattiverie dei nazisti, al senso di impotenza dei prigionieri, un racconto “ edulcorato “rispetto alla realtà vera dei campi di concentramento e di sterminio. Italiano ha spiegato, sommi capi  – i ragazzi sono in seconda e la Shoah è programma di storia in terza media – la vicenda storica e umana delle persone internate, ha spiegato la valenza del ricordo e il perchè aveva letto quel racconto. La sua è stata una scelta mirata, compiuta sulla base delle indicazioni più recenti degli storici che “ consigliano “ la “ narrazione “- come è uso dire adesso nei salotti buoni della tv! –  della Shoah più che la visione di immagini o documentari oppure film sulla stessa. Quindi sì, è vero, il racconto avrebbe dovuto catturare l’attenzione dei ragazzi,  poichè parlava di una bambina della stessa età o di poco più piccola rispetto ai nostri, parlava di una realtà che stranamente i più non conoscevano, perlomeno non in quei termini. Alla fine della lettura, ci sono state diverse domande da parte dei ragazzi, qualcuno ha chiesto se fosse possibile fare una ricerca. Italiano ha deciso quindi di assegnare come compito per casa un riassunto del brano raccontato, con delle considerazioni incentrate sulle impressioni ricevute, su quanto era stato detto anche in classe. Ieri tutti volevano leggere il loro “ prodotto “. Anche G. ha chiesto la parola e – augh! – ha detto la sua. Non ricordo di preciso le parole, ma il “ succo “ è stato questo: la Shoah è una vicenda che è capitata tanto tempo fa, che vale la pena ricordare giusto alle scuole medie, poi è inutile ricordare, non serve a niente, perchè ai grandi non interessa, lui stesso non ne è rimasto particolarmente colpito.  Sconvolte ci siamo guardate e Italiano ha commentato a sua volta: G. neppure al peggior negazionista sarebbe venuto in mente un commento così! G. ha fatto spallucce e ha aggiunto: io la penso così!  Qualcuno ha chiesto: Prof chi sono i negazionisti? Cercate sul vocabolario! La risposta di una rattristata Italiano. Ci siamo poi confrontate, con la collega, su quanto accaduto. É chiaro che G. deve aver  “ percepito “ qualcosa a casa, dai discorsi fatti dai grandi deve aver capito quello che ha scritto. Ma noi avevamo fatto altri discorsi, avevamo calcato la mano sul fatto che nei campi i bambini non riuscivano a sopravvivere, erano i primi a morire, a meno che non erano parte di un qualche crudele esperimento. Avevamo detto  e ancora detto. Ripensandoci ora, sono arrivata alla determinazione che la Shoah non va solamente “ narrata “, ma va vista, in barba ai dettami dei dotti storici! Vanno visti i terribili documentari girati subito dopo la liberazione dei sopravvissuti nei campi, vanno viste le deportazioni, vanno viste tutte le nefandezze che i nazisti hanno compiuto. Solo così si può prendere coscienza dell’orrore, solo così è possibile ricordare senza dimenticare mai.