Il “ vezzo “ di certuni, possessori di trentatré auto di grossa cilindrata – una per ogni giorno del mese? – è quello di non temere il ridicolo sbandierando ai quattro venti – nel caso anche ai quattro o cinque o sei socialcosi di ordinanza – non solo il possesso delle trentatré macchinine in dotazione, ma anche la rivelazione, urbi et orbi, di pensieri che possono solo definirsi socialmente pericolosi. Per i piccoli e tristi omuncoli come quel Tate che, incapace di tenersi il cecio in bocca, ha battibeccato con Greta Thunberg di possessi terreni e di ridicoli comportamenti altamente scorretti, ben vengano i portatori di pizze, se il mangiare una pizza – e mostrarlo – serve a farli arrestare. Peccato che ci siano donne convinte che frequentare tali misogini mangiatori di pizza possa servire ad elevarle al ruolo di compagne di merende, mentre per loro è solo ricadere in tristissimi e già visti cliché.
Gli eventi della Storia attraversano le nostre vite sempre, travolgendole, in alcuni casi, in altri limitandosi a trovare spazio nella memoria collettiva e personale di quelli che c’erano. Il 16 marzo del ‘78 ero a casa per le vacanze di Pasqua. Non c’erano lezioni da seguire, in Accademia, a Firenze. C’era solo la voglia di essere a casa, di stare con quello che poi sarebbe diventato il mio compagno di vita, c’era tutto questo e ci bastava. Ad un tratto alla radio furono interrotti tutti i programmi e con un comunicato lapidario sapemmo che Aldo Moro era stato rapito dalle Brigate Rosse. Ci guardammo sgomenti e pensai, in quel momento, che sarebbe scoppiata una guerra civile. Non erano tempi leggeri quelli che abbiamo vissuto allora. Avevo viaggiato per i quattro anni precedenti con una piccola medaglia al collo sulla quale era indicato il mio gruppo sanguigno, perché temevo, nel viaggiare in treno, di incappare in un qualche attentato, come era successo già troppe volte, temevo di saltare in aria, nel peggiore dei casi, oppure di rimanere ferita e quella della medaglietta era una specie di scaramanzia, un amuleto per aiutarmi a pensare che nulla, forse, mi sarebbe capitato. Discutemmo quel giorno della follia di un atto così plateale, ci chiedemmo mille volte il perché. Aldo Moro non era una persona che avremmo votato, non apparteneva al nostro modo di pensare alla politica come parte del possibile, non vi appartenevano neppure le Brigate Rosse. L’uccisione della scorta di Moro colpiva quegli uomini che avevano dovuto indossare una divisa, a differenza nostra che avevamo avuto il privilegio della scelta, quella di poter studiare, loro agnelli sacrificati sull’altare della follia stragista. Dopo sapemmo dare risposte, in parte, ai nostri perché. Molto tempo è passato da allora, ma Esterno notte di Marco Bellocchio ha riportato alla memoria il buio di quel tempo, ha letto l’umana vicenda di Aldo Moro e della sua famiglia con lo stesso sgomento e dolore che appartiene alle donne e agli uomini comuni, la cui storia non si leggerà mai sui libri.
In questi giorni rileggo quanto ho scritto negli anni passati, in maniera specifica quegli articoli che parlano di politica, perlopiù, e mi rendo conto che i fatti si ripetono sempre alla stessa maniera. Questo post del 2016 era vero allora e continua ad esserlo anche oggi. Siamo ostaggio delle teorie di Vico oppure siamo un popolo di smemorati?
L’alpacca è una lega, un combinato di metalli poco ” nobili ” con la tendenza a voler essere quello che non sono, preziosi; in realtà un insieme nella giusta proporzione per imbrogliare l’osservatore poco accorto, convinto di imbattersi nella gloria di un ricco metallo. Simile all’alpacca è l’ attitudine di certi che fanno politica: un combinato di poca nobilità e di quello che volete: siano intenti o furberie, vociare di piazza o populismi, tutto è disposto con la giusta dose per l’abbaglio comune e duraturo. Ma come succede per l’alpacca, basta scorticare la patina e si scopre il nero sottostante.
Preceduto da un “ Barbiere “ rossiniano, ieri l’altro all’Opera di Roma, in un inusuale allestimento scenico – e come può avere carattere di “ usualità “ date le circostanze? – e nell’alternarsi di musica e poesia e immagini e canto e danza è andato in scena, ieri sera alla Scala, lo “ spettacolo “. Godibilissimo, per fasto e sensazioni e “ colore “. Forse meglio di una prima “ prima “?
Nelle foto scolastiche che le nostre mamme conservarono a futura memoria, foto rigorosamente in bianco e nero, noi bambine di allora avevamo l’espressione stupita di chi provava meraviglia che qualcuno potesse avere voglia e tempo di interessarsi a noi, facendoci un ritratto tutte assieme e con la maestra a fianco. Neri i nostri piccoli grembiuli di scuola elementare, con colletti bianchi e fiocchi blu. Ricordo un particolare del colletto, si poteva rimuovere con facilità perché era attaccato al grembiule con dei bottoncini nascosti, così che la mamma, all’occorrenza, poteva lavarlo senza dover necessariamente lavare anche il grembiule. La differenza, tra una divisa e l’altra, stava proprio nei colletti. Qualche bambina era dotata di colletti più larghi del normale, magari ricamati o di pizzo. C’era sempre, nonostante il desiderio di uniformare, desiderio che nasceva dall’impostazione di non creare differenze, il “ pensiero divergente “ di qualche mamma che invece voleva, con il ricamo o il pizzo, rimarcare la differente possibilità economica – i colletti di pizzo erano senz’altro più costosi di quelli di piqué. E ancora ricordo la bambina con i capelli rossi, che sedeva nel banco davanti, che indossava un gran colletto bianco, molto più grande del normale del quale andava fiera. Una mattina, su quello stesso colletto, vidi vagare un puntolino nero. La mia compagna di banco mi diede di gomito e sottovoce, in un orecchio, mi disse: É un pidocchio! Fui ben felice di avere un piccolo colletto bianco non abitato da esseri in cammino. Erano tristi quei grembiulini, così neri, seri, sotto le nostre facce ridenti, sopra le nostre ginocchia mai veramente pulite, ginocchia quasi sempre sbucciate dai giochi di strada. Ebbi ancora, da adolescente, camici bianchi sulle minigonne, all’istituto d’arte, dove, da allieva della sezione ceramica, lavoravo l’argilla al tornio o decoravo inutili oggetti che portavo a casa, orgogliosa per averli forgiati e decorati. I camici dovevamo portarli sempre e comunque, in fondo non ne eravamo dispiaciute ci davano l’idea di una professione che per alcune di noi sarebbe arrivata poco dopo. Solo ai ragazzi erano concesse deroghe, salvo quando dovevano svolgere i laboratori, come noi e con noi. La necessità di non sporcarmi di grafite mentre disegnavo planimetrie, e prospetti e sezioni – AutoCad sarebbe arrivato molto più in là – nello studio tecnico dove lavoravo da ark arrivò più tardi, finita l’accademia di belle arti. I “ miei “ muratori, le maestranze che accoglievamo a studio, mi guardavano vestita di bianco e, divertiti, avevano l’impressione di avere a che fare con un medico. Dalle tasche del mio camice spuntavano sempre, coloratissimi, “ attrezzi da lavoro “, righelli, matite e colori. Ho portato il “ grembiulino “ dunque, fino all’età della ragione, senza che me potessi lamentare e con la differenza, rispetto ad altri con lo stesso indumento, che ad indossarlo ero io, con il mio essere uguale per appartenenza sociale al genere umano e diversa per il mio esserlo rispetto a tutte le altre persone del mondo, così come diversi siamo tutti. Non è un grembiulino che rende uniforme una classe di bambini, non si mascherano le differenze sociali e non, che ognuno porta con sè. Se l’intento del “ macaco da balcone “ è quello di livellare l’appartenenza sociale, allora sappia che ci sarà sempre una mamma qualsiasi a infilare, sul grembiulino, un colletto di pizzo che differenza fa. Se invece la storia è un’altra, se il dibattito pubblico è impostato sui pro e sui contro, perché così il macaco può far stornare i pensieri di tutti dai problemi veri che impegnano le ansie di chiunque in Italia, strategia “ finissima “ per chi come lui macaco è, per indole e pensiero, allora la faccenda è un’altra. Il grembiulino lo metta lui, avvezzo com’è all’uso improprio di divise altrui.
Millet, Jean Francois (1814-1875): The Gleaners Paris Musee d’Orsay *** Permission for usage must be provided in writing from Scala.
Le donne che sono state, nella mia famiglia, parte attiva di un mondo che non è fatto di sola casalinghitudine, sono il mio continuo monito, esempio lineare di comportamento. Nonna Rosaria, madre massima, donna di tantissimo carattere e di decisioni estreme e irreversibili, sposò giovanissima un orfano, altrettanto giovane e soprovveduto, che le fece fare dieci figli. Figli non tutti maschi, figlie anche, da sorvegliare e da sistemare in maniera adeguata. Il marito, mio nonno, partì per la guerra d’Africa, e lei che di figli aveva esperienza cominciò ad aiutare altre donne a partorire, si proclamò ostetrica pur non avendone titoli, ma per competenza. Fece da balia a tanti bambini del paese, fece la contadina aiutando sua madre, la bisnonna, che era esperta e pratica di mezzadria e comandava su uno stuolo di aiutanti, mestiere che praticò in mancanza d’uomini tutti impegnati nella “ sacralità “ di una guerra che ne lasciò parecchi morti o dispersi. Le figlie di Rosaria, mia madre e le sue sorelle, non ebbero modo mai di oziare in casa, che nella casa di mia nonna c’era sempre uno stuolo di bambini più piccoli da accudire, un terreno da andare a spigolare, un orto da zappare, una tela da tessere o ricamare – quest’ultime attività erano state il grande “ privilegio “ concesso a mia madre, di costituzione “ delicata “, inadatta alla vita dei campi come la sorella più grande. Mia madre sposò un uomo che venne da lontano, almeno per la misura del tempo, mio padre. Insieme si “ inventarono “ un mestiere, un commercio, affidato ad una ragazza di paese che non sapeva nulla del mondo, che praticò per tutta la vita con l’indole della ribelle, con interesse e passione e curiosità. Quando lasciò il suo lavoro costretta dalla circostanza della sua malattia, quando fu obbligata a non essere parte attiva di quel mondo che aveva creato dal nulla, cominciò a morire disperandosi per non poter più essere la donna che era stata. Intorno a me ho sempre avuto loro, la mia fonte inesauribile di esempi concreti. Non ho mai pensato a me stessa come ad una persona che doveva dipendere da qualcuno, uomo padre o marito che fosse. Da piccola vedevo mia madre lavorare e provvedere in ugual misura a tutti noi in famiglia, mille cose da fare tutti i giorni, e mi “ faceva strano “ veder passare per strada l’amico di mio padre che invece, con una moglie casalinga, si recava a fare la spesa disponendo dei mezzi economici adeguati per farlo, ma impedendo di fatto che fosse la moglie a decidere gli acquisti da fare, il cibo da mangiare, una sudditanza dettata solo dalla dipendenza economica e sociale, dalla mancata emancipazione di una persona nata “ disgraziatamente “ femmina in un mondo volto al maschile. Pensavo a tutte le donne che ho amato, a tutte le donne che avrebbero voluto costrette e limitate e invece, per una serie di circostanze non lo sono mai state. Pensavo a questo disgraziatissimo reflusso di idee, del ritorno al mondo di una mentalità gretta che vuole le donne sottomesse a ruoli di comprimarie, del voler ad ogni costo reprimere e soffocare ogni indipendenza femminile da parte di maschi che hanno disprezzo per le loro compagne, che ripetutamente violentano in mille modi, che ripetutamente uccidono. Pensavo a quante donne non credono in quello che sono e in quello che fanno o che tentano ogni giorno di fare, perchè c’è qualcuno che dice loro che se sono state violentate è da verificare se non si tratta di un fenomeno di isterismo, che il loro ruolo sociale è quello di procreare a tutti i costi e se chiedono tutela politica perchè un maschio, di cui si sono fidate, le ha sbeffeggiate pubblicamente mettendo in piazza i loro affari privati, be’ cosa vogliono, se la sono cercata. A questi pensieri mi dico, allora, fortunata. Fortunata dell’essere nata da una generazione di piccole donne forti, fortunata dell’essere quella che sono, la nipote di Rosaria, la figlia di mia madre.
Moltissimi anni fa, prima dell’avvento di Google e delle mille propaggini internettiane che ti aiutano nella buona e nella cattiva sorte, insomma prima di tutto ciò, mi feci abbindolare da un annuncio comparso su uno dei giornali a fumetti o qualche altra rivista, non ricordo bene. L’annuncio propagandava la mirabolante vendita di un centinaio, o forse più, di bambole di varie dimensioni non ben specificate. Feci in modo che mia madre potesse acquistare per me, perché ero una mini minorenne e dopo qualche tempo il pacchetto che avevamo immaginato voluminoso arrivò. Con ansia fu aperto da entrambe e ci rendemmo conto di aver preso una solenne cantonata: le bambole c’erano e anche in numero esatto – le contammo! – però andavano, in dimensione variabile, da un centimetro a tre scarsi. Insomma erano in tutto e per tutto simili a piccoli feti. Non ce la sentimmo di buttar via in un sol colpo una spesa così mal spesa e come due novelle anatomopatologhe stipammo la congrega di pollicine in un barattolo di vetro e lì rimasero fino a quando, in un empito di ordine mia madre decise di epurare le bamboline regalandole a non so quale bambina di sua conoscenza. Mi sono ricordata poco fa del barattolo colmo di bamboline, leggendo la “ lieta novella “ del gadget a forma di feto, distribuito al Congresso Mondiale delle famiglie che si tiene da oggi e per i prossimi tre giorni a Verona. I feti di plastica vengono donati per ricordare alle donne “ distratte “ di non abortire: è la santa famiglia che vuole essere glorificata anche attraverso la nascita di figli non voluti, di figli estorti. Se avessi saputo allora che un ricordo, tutto sommato innocuo e divertente, sarebbe stato insidiato così tanti anni dopo da una tale strumentale e volgare speculazione, le avrei buttate subito le mie pollicine, per farle entrare nel limbo delle cose da non ricordare, così come questo delirio veronese è da cancellare dalla memoria della nostra storia comune.
Abbiamo disimparato a stupirci, ormai da tempo, ma c’è sempre qualcosa o qualcuno che concorre a renderci consapevoli che c’è sempre da mettere in conto la variabile umana. I fatti: si celebra un processo per stupro, qualche anno fa nelle Marche. La vittima una ragazza peruviana, la parte avversa due connazionali il primo coinvolto di fatto, l’altro il palo. Condannati entrambi a qualche anno di prigione, si appellano alla sentenza. I tre magistrati “ donne “ decidono che non c’è stato stupro perchè la vittima è troppo brutta e mascolina per non essere stata consenziente ad un rapporto sessuale con lo stupratore. La “ brutta “ decide di andare in cassazione e lì si accorgono che le tre magistrate devono aver creduto di partecipare ad un concorso di bellezza piuttosto che ad un processo per stupro. Viene dunque da porsi una sola domanda, perchè? Perchè tre donne che dovrebbero tutelare un’altra donna prima di ogni altra considerazione, decidono invece di denigrarla? Forse convinte dell’essere investite dal ruolo di magistrate “ dure e pure “ decidono di far trionfare una giustizia di stampo maschilista? Oppure a vario titolo imparentate con i condannati decidono di graziarli? – perchè solo una mamma, una zia e una sorella potrebbero essere in grado di giustificare l’ingiustificabile con un “ tanto è brutta! “! La mente dell’uomo è assai complessa e tortuosa nei ragionamenti, quella della donna evidentemente di più. Non c’è da indirizzare che un solo pensiero alle tre delle Marche, vergognatevi!
Adele Faccio ed Emma Bonino – manifestazione degli anni 70 del Novecento.
Le ragazze che andavano in sposa nell’Ottocento avevano come monito assoluto, sulle camicie della prima notte di nozze ricamato tutto intorno al pertugio praticato ad arte, quello che per gli uomini che le avevano sposate era una “ garanzia “, per le ragazze stesse il divieto di pensare a sė come corpo in senso stretto. “ Non lo fo per piacer mio “ serviva ad annullare ogni possibile pensiero carnale, semmai ci fosse stato, e quel “ ma per dare un figlio a Dio “ la certezza per gli uomini di continuare la stirpe, una discendenza terrena fatta di figli maschi, se possibile, da pretendere sempre. Dunque erano gli uomini a disporre dei corpi femminili, le donne concorrevano ad assecondare qualcosa che era ritenuto proprietà esclusiva dei padri prima, dei mariti dopo. Passaggi di consegna di una “ femmina “, capretti da portare al macello per un rituale arcaico, una festa pagana per celebrare il “ dio maschio “. È passato del tempo, le donne hanno capito molto, hanno fatto tanto per se stesse, ma è cambiato sostanzialmente qualcosa? Se decido di piantare un uomo, compagno o marito che sia, per incompatibilità di carattere, perchè è un uomo violento, perchè mi sono innamorata di un altro uomo, devo aspettarmi di morire per questo? Succede che ci siano “ buone “ possibilità che finisca di vivere per mano “ amica “ perchè da donna non posso decidere di me stessa, perchè non posso essere autodeterminata nella scelta di stare lontana da quell’uomo che mi professa amore eterno e mi uccide. E mi uccidono due volte quando una sentenza della corte d’appello diminuisce la condanna, in termini di pena detentiva, per una “ tempesta emotiva “ dell’uomo che, dopo appena un mese di conoscenza, pretendeva di avere su di me, sul mio corpo, potere assoluto. Succede che se decido di non portare a termine una gravidanza, perchè magari frutto di una violenza carnale o comunque perchè non è quello il momento in cui desidero essere madre, negli ospedali ai quali mi rivolgo ci sono medici maschi obiettori di coscienza, e dunque padroni di decidere che io, quel grumo nel mio grembo, devo farlo diventare un bambino non voluto, non amato perchè non desiderato. Il non essere madre mi trasformerà in una reietta, in una persona non degna di considerazione, perchè sono stata io a decidere di me stessa. Per contro se è un maschio a costringermi all’aborto è accettabile il suo punto di vista, condivisibile da qualsiasi altro maschio. Se sono nata in un paese africano o del medio oriente, il mio destino sarà quello di una donna mutilata, i miei genitali ricuciti, evirati, ridotti, per rendermi “ controllabile “ sessualmente. Esempi limite? Non direi, basta guardarsi intorno, basta leggere la cronaca quotidiana. Il diritto e la libertà di scegliere in autonomia tutto quanto riguarda il proprio corpo è un diritto fondamentale e inalienabile, che qualsiasi essere umano dovrebbe avere. Autogovernare se stesse, la propria persona, senza che ci siano maschi padroni, padri e mariti e compagni a decidere per te dovrebbe essere l’imperativo per tutte le donne, giovani o vecchie che siano.
Molto spesso vien detto in ogni dove – se per ogni dove intendiamo quei posti in cui ci sono tanti a concionare della cronaca quotidiana e su questa armano congetture, pontificano pareri, esprimono lapidarie conclusioni – in quei posti, dove tutto è chiaro e scuro senza mezze misure, trovano spazio quelle gratuite convinzioni per le quali la scuola, gli insegnanti debbono insegnare, oltre che tutto lo scibile umano, soprattutto l’educazione, come se l’educazione sia qualcosa che attiene esclusivamente all’insegnamento scolastico duro e puro. Naturalmente a nessuno viene mai in mente che l’educazione, quella misura per la quale sei una persona che sa come stare con gli altri, che conosce i valori fondamentali del vivere con se stesso e con gli altri, che non ruba, non ammazza, non si comporta come un delinquente, be’ quell’educazione la si apprende con il latte materno, in casa con gli esempi, se serve con qualche ceffone, a mo’ d’esempio anche quello. A scuola l’educazione viene rafforzata, se esiste di già. Per dire banalmente, se Pasqualino a scuola si diverte tanto, ma tanto, a sgambettare il compagno mentre passa per andare in bagno, oppure a spintonarlo per strada rischiando di farlo finire sotto un autobus, Pasqualino deve essere redarguito dagli insegnanti anche se la nota disciplinare serve davvero a poco vi assicuro; è fondamentale, in questo caso, l’intervento dei genitori di Pasqualino che intanto dovrebbero necessariamente chiedersi dov’è che hanno clamorosamente toppato se il proprio figlio compie gesti da gradasso. Conosco la domanda che vi sta passando per la testa, che vuoi che sia uno sgambetto? Se è un fatto limitato al momento va di lusso se il compagno che cade non si fa nulle e passi, e non è comunque qualcosa che possa scusare il gesto in sè, ma se diventa un gesto reiterato e non censurato, Pasqualino avrà l’eterna convinzione che ogni cosa compiuta secondo l’estro del momento sia ammissibile. Il racconto della sciocchezza di Pasqualino, fatto dallo stesso, provoca due diverse reazioni: a scuola un insegnante qualsiasi punirà Pasqualino con le armi spuntate a disposizione e avrà l’accortezza che Pasqualino non possa più ripetere il gesto – perlomeno a scuola! – a casa è probabile che il gesto venga vagliato con una risata, perché fa tanto ridere un compagno che cade, ammesso che Pasqualino stesso abbia voglia di raccontare una cosa così alla mamma impegnata a chattare su whatsapp o al babbo impegnato in una partita di calcetto con i suoi coetanei adolescenti di quarant’anni. Il discorso cambia se l’insegnante convoca i genitori per quello che Pasqualino ha fatto. Le reazioni dei genitori sono spesso molteplici: c’è chi non si capacita di una cosa del genere e stenta a credere che il frutto dei propri lombi sia un pezzo di cretino che si diverte in maniera sciocca a far del male a chiunque; c’è chi invece è visibilmente scocciato del richiamo perchè mette in evidenza la propria incapacità ad educare Pasqualino; c’è chi promette punizioni esemplari che si limitano a lasciare Pasqualino senza smartphone per mezza giornata. E se il Pasqualino di turno è quello che con un bastone ha ammazzato di botte, insieme ad altri Pasqualini come lui, un povero cristo che è lì per strada a guadagnarsi il pane quotidiano, ammazzato per una pistola da rivendere al mercato nero, allora come si comporta il genitore del Pasqualino, che cosa ha da dire, cosa ha da giustificare se stesso di fronte al mondo intero, se intervistato vestito di una maglietta sulla quale campeggia la scritta “ narcos “, l’unica cosa visibile della sua persona – dichiarazione di intenti? – ricorre al solito, non posso credere che sia stato mio figlio e dà credito al Pasqualino malvagio e assassino che gli chiede di tirarlo fuori di galera. Mi viene da pensare che in galera sarebbe conveniente ci mettessero anche il padre incapace di educare un figlio degenere o tutti coloro che, a vario titolo, si sono resi partecipi sui vari social cosi di considerazione per la “ disgrazia “ capitata a Pasqualino, come se ammazzare una persona sia un gesto che possa trovare delle attenuanti, possa essere commentato come un qualsiasi sgambetto. È considerare il mondo a propria immagine, questo modo di fare, è una visione distorta della vita che non comprende nessun tipo di educazione.