
Nelle foto scolastiche che le nostre mamme conservarono a futura memoria, foto rigorosamente in bianco e nero, noi bambine di allora avevamo l’espressione stupita di chi provava meraviglia che qualcuno potesse avere voglia e tempo di interessarsi a noi, facendoci un ritratto tutte assieme e con la maestra a fianco. Neri i nostri piccoli grembiuli di scuola elementare, con colletti bianchi e fiocchi blu. Ricordo un particolare del colletto, si poteva rimuovere con facilità perché era attaccato al grembiule con dei bottoncini nascosti, così che la mamma, all’occorrenza, poteva lavarlo senza dover necessariamente lavare anche il grembiule. La differenza, tra una divisa e l’altra, stava proprio nei colletti. Qualche bambina era dotata di colletti più larghi del normale, magari ricamati o di pizzo. C’era sempre, nonostante il desiderio di uniformare, desiderio che nasceva dall’impostazione di non creare differenze, il “ pensiero divergente “ di qualche mamma che invece voleva, con il ricamo o il pizzo, rimarcare la differente possibilità economica – i colletti di pizzo erano senz’altro più costosi di quelli di piqué. E ancora ricordo la bambina con i capelli rossi, che sedeva nel banco davanti, che indossava un gran colletto bianco, molto più grande del normale del quale andava fiera. Una mattina, su quello stesso colletto, vidi vagare un puntolino nero. La mia compagna di banco mi diede di gomito e sottovoce, in un orecchio, mi disse: É un pidocchio! Fui ben felice di avere un piccolo colletto bianco non abitato da esseri in cammino. Erano tristi quei grembiulini, così neri, seri, sotto le nostre facce ridenti, sopra le nostre ginocchia mai veramente pulite, ginocchia quasi sempre sbucciate dai giochi di strada. Ebbi ancora, da adolescente, camici bianchi sulle minigonne, all’istituto d’arte, dove, da allieva della sezione ceramica, lavoravo l’argilla al tornio o decoravo inutili oggetti che portavo a casa, orgogliosa per averli forgiati e decorati. I camici dovevamo portarli sempre e comunque, in fondo non ne eravamo dispiaciute ci davano l’idea di una professione che per alcune di noi sarebbe arrivata poco dopo. Solo ai ragazzi erano concesse deroghe, salvo quando dovevano svolgere i laboratori, come noi e con noi. La necessità di non sporcarmi di grafite mentre disegnavo planimetrie, e prospetti e sezioni – AutoCad sarebbe arrivato molto più in là – nello studio tecnico dove lavoravo da ark arrivò più tardi, finita l’accademia di belle arti. I “ miei “ muratori, le maestranze che accoglievamo a studio, mi guardavano vestita di bianco e, divertiti, avevano l’impressione di avere a che fare con un medico. Dalle tasche del mio camice spuntavano sempre, coloratissimi, “ attrezzi da lavoro “, righelli, matite e colori. Ho portato il “ grembiulino “ dunque, fino all’età della ragione, senza che me potessi lamentare e con la differenza, rispetto ad altri con lo stesso indumento, che ad indossarlo ero io, con il mio essere uguale per appartenenza sociale al genere umano e diversa per il mio esserlo rispetto a tutte le altre persone del mondo, così come diversi siamo tutti. Non è un grembiulino che rende uniforme una classe di bambini, non si mascherano le differenze sociali e non, che ognuno porta con sè. Se l’intento del “ macaco da balcone “ è quello di livellare l’appartenenza sociale, allora sappia che ci sarà sempre una mamma qualsiasi a infilare, sul grembiulino, un colletto di pizzo che differenza fa. Se invece la storia è un’altra, se il dibattito pubblico è impostato sui pro e sui contro, perché così il macaco può far stornare i pensieri di tutti dai problemi veri che impegnano le ansie di chiunque in Italia, strategia “ finissima “ per chi come lui macaco è, per indole e pensiero, allora la faccenda è un’altra. Il grembiulino lo metta lui, avvezzo com’è all’uso improprio di divise altrui.
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