Consiglio di classe

In una serata come tante, con un gruppo di donne che eviti di chiamare ex colleghe, perché è una condizione che non ti piace, quella di ex, in un clima di totale rilassatezza – se si può definire rilassato il clima di una pizzeria, dove a farla da padroni sono genitori e figli maleducati e vocianti – ( ma il nostro gruppo era rilassato, sì! ) si finisce per parlare di scuola, di quello che succede e di quello che capiterà nei prossimi tempi, anche se non è proprio, al momento, il tuo argomento preferito. Sicché tornata a casa, ripensi a quanto care ti sono quelle ragazze che ti hanno fatto compagnia per una manciata di ore e, andando indietro nel tempo, per innumerevoli giorni e anni. Così, durante la notte, a ricordare che è difficile scardinare una storia comune, sotto forma di sogno tornano, con l’incubo delle prove comuni, non pronte, da somministrare. Un’ansia terribile! Ecco l’effetto che può ancora fare sulle prof quiescenti il sentir parlare di scuola.

La guerra di Piero ( una ballata con disegni )

Se solo una ballata e una manciata di disegni avessero il potere di cancellare le guerre da ogni dove del mondo ( prima su tutte quella che ci preoccupa maggiormente, in Ucraina, con prove generali di guerra atomica in atto ) sarei disponibile a postare ogni giorno, per sempre, disegni e parole, sempre quelli, come atto scaramantico perpetuo, per scongiurare e per inibire pensieri e azioni di morte.
I disegni sono di A. il riccioluto e bellissimo ragazzo blu, alunno d’altri tempi, fatti di getto mentre lui e i suoi compagni ascoltavano “ La guerra di Piero “ di De Andrè.

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno…

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Ma tu no lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera
E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi

( La guerra di Piero, Fabrizio de André 1966 )

Il Patatoso

Presa da furor sacro – simile a quello che muoveva le gesta della (in)dimenticata Marie Kondo… ve la ricordate, no, quella curiosa signora che aveva come unico obiettivo il KonMari o del riordino felice? – insomma emula dei diktat konmareschi mi sono attrezzata a far diventare carta da macero un bel po’ di circolari scolastiche vetuste come il cucco, agende che ricordavano le guerre puniche – esagero, suvvia! – e altre reminiscenze in formato carta scritta. Nel separare i fogli usati di un’agenda del 2014, da quelli buoni per fare i pizzini, in fondo alla pagina del dieci marzo trovo scritto “ Sei brutta Sei propio tu “. L’autore del piccato giudizio, il Patatoso! Che tenerezza nel ricordarlo e che carattere il mio dolce D.!
Ad ogni mio invito a fare secondo una regola, mi opponeva regolarmente una volitiva negazione e quando non riusciva a spuntarla, di nascosto mi sottraeva l’agenda e scriveva frasi che dovevano punirmi, Sei brutta, Sei cattiva, salvo poi pentirsi e chiedermi imbronciato di aiutarlo a fare qualcosa, in segno di rappacificazione. Di lui ho parlato molte volte nei post del 2014. Quello fu il suo ultimo anno di scuola media e aveva tredici anni, adesso, fatti due conti, ne ha ventuno. Un adulto che la società condanna ad un’eterna adolescenza senza che possa in autonomia cercare casa, pensare ad un futuro condiviso, così come è capitato a Milano qualche giorno fa.
La diversità spaventa, in qualsiasi modo si manifesti, ancora di più se si svela in maniera apparente, così da costringere i molti a fare confronti e paragoni, in modo da costringere gli stessi molti a rifiutare una diversità che li arricchirebbe. Davvero triste.

Che cos’è l’amor

immagine di Stephen B. Whatley

È da tempo che G. sembra essersi smarrito in chissà quali pensieri, nascosto dal ciuffo biondo riccioluto che gli rimane calato sugli occhi e dal suo sodale di poco avanti che lo copre alla mia vista e non di poco. Qualche giorno fa sostituisco Italiano e chiedo, che facciamo oggi? tutti mi consegnano all’unica alternativa possibile, almeno per me, interrogarli in storia. Sicché guardo G. e gli chiedo di parlarmi di Bismarck. Di tutta risposta mi sento dire, Prof non ho studiato perché non ho capito. Perplessa gli dico che è impossibile che non abbia capito e mi dispongo ad aiutarlo, leggendo “ l’incomprensibile “ paragrafo. Leggo soffermandomi su quanto mi sembra necessario e spiego, cercando di far riflettere G. e i suoi compagni. Qualcuno alla fine mi dice che spiego bene – meno male! – e chiedo a G. se adesso finalmente ha compreso. All’assenso del suo ciuffo biondo faccio seguire una neanche tanto larvata minaccia, domani ti interrogo. Il giorno seguente, dopo il puntualmente, G. hai studiato? Blonde on blonde mi fa: Prof non ho studiato, sono innamorato! Pare brutto da dire, ma m’è venuto da ridere – insomma G. ha pure tredici anni e se penso ai miei infantili tredici anni senza pensieri, mi sembra “ anomalo “ un tredicenne innamorato perso, invece che perdersi a giocare dietro ad un pallone per strada. Poi chiedo, curiosa come non mai, chi è “ l’oggetto “ delle sue attenzioni. Mi dice che si chiama G. stessa iniziale, ma nomi diversi, e che frequenta la prima classe delle superiori. Commento invidioso dei compagni di classe, Prof è una “ vecchia “! Mi intenerisce G. alle prese, anzitempo, con l’amor. Stamattina alla mia richiesta di aggiornamenti sullo stato delle cose, G. mi dice, Prof l’ho lasciata. E il compagno di banco, comprensivo, aggiunge, É una ragazza “ leggera “. Pesa poco?  il mio commento.

Che cos’è l’amor
È un sasso nella scarpa
Che punge il passo lento di bolero…

Ruoli

 

 

 

 

 

 

 

Durante il compito di grammatica, stamattina, ricevo un messaggio. Italiano mi scrive: Ho un problema qui in seconda, ho bisogno di una vice. La raggiungo di lì a poco. La vice in questione sono io, che ancora stento a crederci. È una condizione strana e curiosa, almeno per me, quella dell’essere vicaria nella mia scuola – sì, insomma, essere vicaria corrisponde al vecchio ruolo di vice preside, per dire. Non so per quale strana ragione mi percepisco sempre dall’altra parte, sono quella che dev’essere redarguita non quella che redarguisce, ma tant’è, sono stata eletta a furor di preside e in qualche modo dovrò entrare nel personaggio, prima o poi. In realtà i “ compiti “ a scuola e a casa sono sempre quelli, ma in più mi tocca il “ pronto soccorso “ pedagogico. Mi affaccio in seconda e, dopo un discorso ampio, ampissimo, sul portare a scuola il telefonino, sulle regole, sul bla bla bla, Italiano mi dice del problema: M. appena rientrato da una “ turnè “ casalinga di cinque giorni – sospeso dal grande capo per aver sottratto del denaro ad Arte, ma restituito – non contento del trattamento, ha filmato qualcosa in classe con il cellulare, non consegnato, come fanno gli altri, durante la prima ora. Dico ad M. che il telefonino va lasciato nello scatola predisposta, poiché è quella la regola che i suoi genitori hanno approvato il giorno in cui lo hanno iscritto a scuola e, dunque, gli dico di alzarsi dal banco e di mostrarmi il contenuto del suo cellulare, visto che Italiano sostiene la tesi del video girato in classe. M. mi guarda e obietta un diritto alla privacy che francamente gli tirerei sulla cocuzza, se la privacy fosse un qualsiasi oggetto contundente. Per sostenere il mio ruolo gli dico che sono costretta a sequestrargli il cellulare e che dovrò restituirlo ai suoi genitori dopo averli convocati. Al che M., un ca@@one grande e grosso, abbassa la testa sulle braccia e inizia a piangere. A quel punto, capita la situazione, gli dico di uscire fuori dall’aula perché voglio parlargli da “uomo ad uomo “. M. nicchia per qualche minuto, poi convinto dai compagni, viene fuori. M. mi supera di una spanna buona – è un pluri “ laureato “, quanti anni avrà, ‘sto stupido? – gli dico di prendere il cellulare che ha la sua prof, di portarlo fuori e, davanti a me, di cancellare il filmato fatto poco prima. M. felice dell’àncora che gli appena lanciato vi si aggrappa, e cancella un filmato del pavimento (?!?! ). Lo guardo, almeno credo di farlo, visto che i suoi occhi sono coperti da una coltre di capelli che lo fanno assomigliare ad un cane da pastore. Seria, gli dico di non riprovarci più. Torna in classe, felice? Speriamo bene.

E non abbiamo ancora iniziato!

Mi ha impressionato, e non poco, l’affermazione di A.  stamattina a scuola: Ci vuole tutto il caratteraccio di “ quella “ per far fronte ad un assembramento scolastico fatto di sole donne o quasi! – dove “ quella “ sta per una ben nota dirigente scolastica dal carattere decisamente sopra le righe, diciamo così.  Ora, non che abbia una particolare considerazione per la “ categoria “ alla quale appartengo di fatto; non mi piace avvallare comportamenti generalmente “ sciatti “ e dalla  tendenza a fare poco e male, che alcune di noi coltivano come fossero fiori rari. Tuttavia penso che siamo persone  e che certi modi di fare sono dettati dalla superficialità e dalla poca voglia di impegnarsi in qualcosa che si considera come un “ lavoro “ – e al nome “ lavoro “ potete dare una valenza qualsiasi, quella che più vi viene spontanea, per associazione. Dunque la superficialità nel fare le cose, un fare disdicevole, che non attiene, però, alla sola categoria insegnanti, ma che è riscontrabile, dati alla mano, in molti “ lavori “ – eccetto, forse, quei mestieri in cui se ti distrai ne va della tua integrità fisica oppure di quella delle persone che hai sotto i ferri, penso ai chirurghi, bontà loro. Tornando al “ caratteraccio “ della dirigente, sono convinta che applicare su larga scala modi di fare e di essere che rasentano la dittatura, siano controproducenti. Non abbiamo attraversato trent’anni di femminismo per arrivare ad essere le pessime copie di omuncoli qualsiasi. Fare del proprio modo di vita uno spauracchio per i più è solamente sterile desiderio di onnipotenza, la “ paura “ di non saper guadagnare il rispetto e la stima degli altri, se non attraverso il “ terrore “, da applicare soprattutto alle altre, le sottoposte, quelle che si considerano inferiori – mi chiedo se, nel momento in cui si partecipa e si vince un concorso da dirigente scolastico ti cambiano anche il cervello, in peggio, oltre che la qualifica! Tanta educazione e rispetto da applicare a larghe mani, la cura, in tutte le situazioni. Per i casi refrattari le fustigazioni corporali – scherzo! 😁

Grembiulini

Nelle foto scolastiche che le nostre mamme conservarono a futura memoria, foto rigorosamente in bianco e nero, noi bambine di allora avevamo l’espressione stupita di chi provava meraviglia che qualcuno potesse avere voglia e tempo di interessarsi a noi, facendoci un ritratto tutte assieme e con la maestra a fianco. Neri i nostri piccoli grembiuli di scuola elementare, con colletti bianchi e fiocchi blu. Ricordo un particolare del colletto, si poteva rimuovere con facilità perché  era attaccato al grembiule con dei bottoncini nascosti, così che la mamma, all’occorrenza, poteva lavarlo senza dover necessariamente lavare anche il grembiule. La differenza, tra una divisa e l’altra, stava proprio nei colletti. Qualche bambina era dotata di colletti più larghi del normale, magari ricamati o di pizzo. C’era sempre, nonostante il desiderio di uniformare, desiderio che nasceva dall’impostazione di non creare differenze, il “ pensiero divergente “ di qualche mamma che invece voleva, con il ricamo o il pizzo, rimarcare la differente possibilità economica – i colletti di pizzo erano senz’altro più costosi di quelli di piqué. E ancora ricordo la bambina con i capelli rossi, che sedeva nel banco davanti, che indossava un gran colletto bianco, molto più grande del normale del quale andava fiera. Una mattina, su quello stesso colletto, vidi vagare un puntolino nero. La mia compagna di banco mi diede di gomito e sottovoce, in un orecchio, mi disse: É un pidocchio! Fui ben felice di avere un piccolo colletto bianco non abitato da esseri in cammino. Erano tristi quei grembiulini, così neri, seri, sotto le nostre facce ridenti, sopra le nostre ginocchia mai veramente pulite, ginocchia quasi sempre sbucciate dai giochi di strada. Ebbi ancora, da adolescente, camici bianchi sulle minigonne, all’istituto d’arte, dove, da allieva della sezione ceramica, lavoravo l’argilla al tornio o decoravo inutili oggetti che portavo a casa, orgogliosa per averli forgiati e decorati. I camici dovevamo portarli sempre e comunque, in fondo non ne eravamo dispiaciute ci davano l’idea di una professione che per alcune di noi sarebbe arrivata poco dopo. Solo ai ragazzi erano concesse deroghe, salvo quando dovevano svolgere  i laboratori, come noi e con noi. La necessità di non sporcarmi di grafite mentre disegnavo planimetrie, e prospetti e sezioni – AutoCad sarebbe arrivato molto più in là –  nello studio tecnico dove lavoravo da ark arrivò più tardi, finita l’accademia di belle arti. I “ miei “ muratori, le maestranze che accoglievamo a studio, mi guardavano vestita di bianco e, divertiti, avevano l’impressione di avere a che fare con un medico. Dalle tasche del mio camice spuntavano sempre, coloratissimi, “ attrezzi da lavoro “, righelli, matite e colori. Ho portato il “ grembiulino “ dunque, fino all’età della ragione, senza che me potessi lamentare e con la differenza, rispetto ad altri con lo stesso indumento, che ad indossarlo ero io, con il mio essere uguale per appartenenza sociale al genere umano e diversa per il mio esserlo rispetto a tutte le altre persone del mondo, così come diversi siamo tutti. Non è un grembiulino che rende uniforme una classe di bambini, non si mascherano le differenze sociali e non, che ognuno porta con sè. Se l’intento del “ macaco da balcone “ è quello di livellare l’appartenenza sociale, allora sappia che ci sarà sempre una mamma qualsiasi a infilare, sul grembiulino, un colletto di pizzo che differenza fa. Se invece la storia è un’altra, se il dibattito pubblico è impostato sui pro e sui contro, perché così il macaco può far stornare i pensieri di tutti dai problemi veri che impegnano le ansie di chiunque in Italia, strategia “ finissima “ per chi come lui macaco è, per indole e pensiero, allora la faccenda è un’altra. Il grembiulino lo metta lui, avvezzo com’è all’uso improprio di divise altrui.

Lu Salentu: lu sule, lu mare, lu ientu

Santuario del santissimo Crocifisso – Galatone ( Lecce )

Come da copione, la settimana scorsa ero in viaggio di istruzione: mete predestinate Galatone e Lecce. ( Il ricordo dei trascorsi scolastici gitaroli precedenti ti prende sempre al ritorno, quando ormai la frittata è fatta e tu sei più sbattuta delle uova della frittata! Com’è la storia che ti eri detta la volta prima? Mai più viaggi di (d)istruzione e invece… rieccoti lì alle sei e un quarto del mattino a contare pecore sparse! Per fortuna stavolta ci è venuta in soccorso la dea necessità che presiede l’ingegno e invece di un pulmone avevamo due pulmini separati! Così una parte delle alunne chiacchierone è stata epurata su un mezzo e il resto della banda Bassotti sull’altro. ) Quasi da non credere, all’andata, all’aria pacata e tranquilla dei più, da non credere al fatto che nessuno avesse particolari esigenze fisiche e/o idrauliche – mi viene da vomitare, devo andare in bagno, posso bere, quando ci fermiamo, quando arriviamo… la regola sempre, stavolta meno. A Galatone – la città del galateo, eh, mica necci! –  ci aspettava un gentile omino in abito blu e cravatta, a raccontarci la storia di quell’esposizione che abbiamo visitato in lungo e in largo. Il tema della mostra, le macchine di Leonardo. Ora, è vero che siamo nell’anno di Leonardo Da Vinci, è vero che forse ai ragazzi potevano anche interessare le macchine da guerra pensate dal Da Vinci, ma che l’omino ce le abbia marinate in tutte le salse solo perchè lui, l’omino stesso, le ha costruite seguendo le istruzioni del buon Leo, centotrenta macchine dicasi centotrenta, moltiplicate per tre ore intense di spiegazione mi è sembrata una faticaccia pazzesca, soprattutto tenere viva l’attenzione dei pulzelli attratti più dai telefonini non “ sequestrati “ che dalle spiegazioni dell’omino in blu. Lo stesso ha magnificato la sua opera fornendo dettagli tecnici sulla costruzione, sui costi – questa macchina mi è costata tredicimila euro! e alla mia domanda come finanzia i suoi progetti? mi ha rifilato un “ risorse personali “ alle quali credo come si può credere alla befana vien di notte! Terminato il percorso con un laboratorio del sapone – che manco Leonarda Cianciulli! – e consumati il quintale di panini a seguito, ci siamo diretti in quel di Lecce capitale – dellu Salentu, mica dell’Italia! – attraversando un paesaggio che mi ha sconcertata e rattristata non poco. Avete presente tutto quel gran parlare che non porta a nulla, a nessuna soluzione, sulla xylella fastidiosa? Non ci si può rendere conto della portata della calamità se non si attraversa la campagna salentina. Gli alberi di olivo sono completamente secchi! E non uno o due o tre,  tutti, per chilometri, non mostrano il minimo segno di vita o vitalità o ripresa. Una sensazione terribile di disastro manifesto! Lecce e il suo barocco, con tutta la confusione di gitanti come noi e turisti e auto, chè il centro storico è tutt’altro che chiuso al traffico, ha messo a dura prova la nostra capacità di riportare a casa tutti gli alunni sani e salvi. Che dire di Lecce? Molto, ma molto, ipercommentata, ipervalutata, in eccesso. Abbiamo riattraversato le moltitudini per rientrare, con pasticciotti e pasticcioni a seguito. L’errore più grande è stato riunire il gruppo classe. Hanno cantato tutto il tempo, a memoria, di tutto! E invece quando li interroghi, grasso che cola se ricordano qualcosa! Il prossimo viaggio di istruzione? Mai più! ( ipse dixit )

Lessico famigliar/scolastico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La mia seconda è una classe di fastidiosi chiacchieroni, egocentrici e molto molto infantili. Spesso, come tutti i preadolescenti – non tutti ma quasi, spero – si attivano a fare qualcosa prima che entri in funzione il cervello, e quel qualcosa è invariabilmente un atto realmente sciocco e senza senso. Per dire, durante la ricreazione P. prende da un banco l’evidenziatore di A. e se lo infila nelle mutande – o giù di lì! Orrore da parte di A. che, strillando come un’aquila, chiede a noi, presenti nell’aula ma a distanza banco/cattedra, di essere vendicata. Che P. abbia un approccio da Rocco Siffredi nei confronti delle compagne non ci è dato di sapere, ma dubito che l’intenzione sia stata quella – P. è una specie di nanetto, tutto reale stupidaggine. Su insistenza dell’offesa la testa di P. è stata offerta al capo su un piatto d’argento e P. ha terminato la settimana a casa, sospeso dalle lezioni per una manciata di giorni. Parlando alla classe dell’ evento capitato e non solamente di quell’evento in particolare, mi è venuta in mente una parola che mio padre diceva a proposito dei gesti senza senso, sciocchi quanto basta per potersene pentire in seguito, “ la fatuegna “. La fatuegna è uno stato della persona cretina che non è abituata al ragionamento, applicabile almeno all’ottanta per cento dei componenti della mia classe esuberante. Sicchè ogni volta che uno dei tanti compie una cretineria, il mio commento ad alta voce è: Cos’è questa? Fatuegna prima puntata? E via così, fino ad arrivare all’altra mattina. Il giochino della fatuegna impegna quelle che, ragazze quasi sempre, ridacchiando seguono le vicende scolastiche e mi suggeriscono i numeri delle puntate. L’altra mattina Geografia, sgomenta di fronte all’ennesima sciocchezza, mi ha guardata. Dal banco di fronte al mio si è alzata la voce di M.: Prof cos’è, fatuegna decima puntata? L’ho guardata, ho guardato Geografia spiegandole brevemente il “ giochino “ e in risposta alla domanda, scoraggiata da cotanta stoltaggine le ho detto: No M. siamo ormai arrivati alla seconda stagione. Seguono ulteriori approfondimenti sulla stagione appena iniziata! Da scriverci un libro, sulla fatuegna!

Marystar in Wikipedia *

“ Si discuteva dei problemi dello Stato, si andò a finire sull’hashish legalizzato “ come diceva il “ poeta “? No, certamente no, ma dell’ultima sortita del ministro Bussetti sulla scuola e gli insegnanti del Sud, sì, perdindirindina! E nel farlo avevo bisogno di “ rinfrescare “ la memoria di alcune di noi sugli “ scompensi “ compiuti ai danni della scuola nelle precedenti legislature. Mi è capitato di linkare alla voce “ Mariastella Gelmini “ in Wikipedia.  Con molto stupore ho appreso della capacità della stessa ex ministra – nero su bianco, e in bella mostra sulla sua foto di “ copertina “- di performance ardite praticate con le distalità inferiori. Ma qualcuno, laggiù nella landa sconfinata dell’aggiornamento wikipediano, si è reso conto dello scantonamento in odore di Youporn, ai danni di Marystar? 🙄 Non si finisce mai di imparare! 🤪

* Aggiornamento di stamattina, 11 febbraio: la scritta sessista e volgare è stata rimossa dalla pagina di Wikipedia dedicata all’ex ministro. Al di là dell’orientamento politico, non posso che rallegrarmi  dell’avvenuta rimozione.