La vita intima

Particolare della copertina del libro “ La vita intima “ di Niccolò Ammaniti- foto web


Prendete una ingenua anaffettiva e pure ignorante ma ricca, prendete personaggi da “ generone romano “, prendete il “ Potere “ descritto nelle sue sfaccettature più becere, prendete personaggi minori che non si sa bene per quale oscura ragione continuano ad adorare l’ anaffettiva ingenua, turbinate in maniera costante e adeguata e otterrete, quasi d’incanto, l’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, quella “ Vita intima “ che sbandierata nel titolo non riconduce ad una reale intimità, visto che l’algida e sprovveduta protagonista non ha una vita intima, in considerazione del fatto che la SUA vita intima, è alla mercè di chiunque intorno a lei. Un titolo da virgolettare? Non sappiamo. Fatto sta che il buon Ammaniti – del quale avevo letto “ Io non ho paura “ tanto tanto tempo fa e poi null’altro – ha dalla sua parte una scrittura buona, a tratti ironica, in certe parti francamente porno soft. Tutta questa “ sapienza “, questo “ mestiere “ si fa leggere facilmente e continui a leggere, non per inerzia, ma per capire fin dove l’ingenua protagonista smette i panni consueti e diventa l’eroina di se stessa, affermando una realtà diversa da quella vissuta finora. Un libro da comprare? Sì, se vi intrigano i retroscena della politica nostrana, anche perché, a lume di naso, il romanzo si presta con facilità a diventare un film – con Nicole Kidman come protagonista… forse no, considerando la vetustà della citata. Un ultimo consiglio, evitate come la peste le presentazioni del libro in presenza dell’autore, spoilera che è una bellezza! 😄

Poesie in cielo


Archivio fotografico personale

Un libro per chi ha perennemente gli occhi rivolti verso il cielo, in cerca di emozioni.

L’inizio del viaggio

STACCARE GLI OCCHI DA TERRA

Si può vivere una vita intera a testa bassa, gettando solo fugacemente uno sguardo distratto al cielo. Magari per vedere se piove o se pioverà a breve. Eppure, il cielo racconta di più della semplice pioggia, e la sua storia è una storia scritta con l’alfabeto delle nuvole. Presenze costanti e mutevolissime, che ingombrano e decorano l’azzurro disponendosi in una miriade di composizioni sempre diverse. Che variano con le stagioni, l’ora del giorno e il luogo in cui ci troviamo e ci accompagnano, come silenziose guide, nella nostra quotidianità.

Cosa sono in realtà le nuvole? Se lo è chiesto Jorge Luis Borges nella poesia Nubi e la risposta che si è dato ci porta a studiarne l’architettura come se fossero figlie del caso. Tuttavia, Borges non ne è sicuro e si chiede con forza cosa esse allora siano nella loro mutevolezza.

II

Vanno per l’aria placide montagne
oppure cordigliere d’ombre tragiche
che oscurano il giorno. Le chiamiamo
nuvole. Hanno sempre forme strane.
Shakespeare ne osservò una. Somigliava
a un drago. Quella nube di una sera
risplende e brucia nella sua parola
e ancora seguitiamo a rivederla.
Le nuvole che sono? Architettura
del caso? Forse Dio ne necessita
per eseguire l’opera infinita:
sono i fili della Sua trama oscura.
Forse la nube non è meno vana
dell’uomo che la guarda nel mattino.

Jorge Louis Borges

( tratto dal libro in immagine Piccolo manuale per cercatori di nuvole di Vincenzo Levizzani )

Happy birthday, little boy

L’occhio del poeta oscenamente vede
la rotonda superficie del mondo
coi suoi tetti ubriachi
oiseaux di legno sui bucati
e maschi e femmine di argilla
con gambe di fuoco e petti in boccio
su letti a muro
e alberi pieni di mistero
e parchi della domenica e statue mute
e la sua America
con le città fantasma e le deserte Isole Ellis
e il suo paesaggio surrealista di
praterie senza pensiero
sobborghi da supermercato
cimiteri scaldati dal vapore
giorni sacri da cinerama
e cattedrali della protesta
un mondo sterilizzato di sedili plasticati da toelette tampax
e tassì
cowboy smidollati e vergini di Las Vegas
indiani diseredati e fanatiche del cinema
senatori non-romani e non-obiettori di coscienza
e tutti i fatali sparsi frammenti
del sogno avverato dell’immigrante
smarrito
tra i bagnanti al sole

Lawrence Ferlinghetti   “ Coney Island della mente “

A rose is a rose is a rose *

Paolo Picasso – Ritratto di Gertrude Stein

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi sono sempre chiesta, leggendo o studiando i movimenti artistici e letterari del secolo scorso, se quanto sia successo sia stato determinato da circostanze specifiche, da influenze particolari oppure da processi imitativi o dalla semplice “ musica che gira intorno “. Parigi negli  anni precedenti la Grande Guerra era il luogo dove tutti dovevano essere, attori e comprimari. Si “ inventava “ l’arte che avrebbe sconvolto la pittura accademica, si maturavano linguaggi nuovi che avrebbero rivoluzionato il modo di scrivere romanzi o articoli di giornali. Racconta Gertrude Stein nell’ Autobiografia di Alice B. Toklas

Così cominció quella vita di Parigi e, siccome tutte le strade conducono a Parigi, ora ci siamo tutti e posso cominciare a riferire quello che avvenne da quando ci fui anch’io.

E descrive la Stein, con dovizia di particolari, l’esperienza vissuta in rue de Fleurus, gli artisti conosciuti – Picasso su tutti – i viaggi compiuti, racconta aneddoti, parla di se stessa e degli altri, parla di Hemingway.  Ci si trova immersi in quell’atmosfera che deve avere, necessariamente, influenzato tutti coloro che in quel momento erano presenti e anche coloro che sono venuti dopo. Il racconto fatto per interposta persona, come se fosse stato scritto da Alice B. ( B. Sta per Babette, il nome con il quale  Gertrude chiamava la sua compagna ) Toklas, è una novità assoluta nel mondo della letteratura del tempo. Successivamente, nell’ Autobiografia di tutti, continuerà a raccontare dei suoi tempi, con il suo caratteristico ingenuo e spietato humor, da “ anarchica programmatica “ qual era.

Gertrude è un personaggio coerente e ama l’eterno presente della vita come ama ( o per poter amare ) l’eterno presente della narrazione: Gertrude scrive soltanto “ su ciò che esiste “ –

dalla prefazione di Fernanda Pivano alla “ Autobiografia di tutti “

Gertrude Stein – Autobiografia di Alice B. Toklas – Einaudi ( tradotto da Cesare Pavese ) Gertrude Stein – Autobiografia di tutti – Nottetempo ( tradotto da Fernanda Pivano ) se ne consiglia vivamente la lettura ai fautori del chiacchiericcio nazional – popolare, perchè possano capire che non si vive di solo vaniloquio.

* La citazione, riportata in diversi scritti, è della stessa Stein.  Può essere intesa come “ le cose sono quelle che sono “ secondo il principio di identità, ma anche, così come spiegato dalla scrittrice, esprime il fatto che il semplice uso del nome di una cosa richiama già l’immaginario e le emozioni ad esso associate. Altri autori, parafrasando la Stein, hanno utilizzato la citazione variandola, nelle loro opere.

 

Maladie

Qualche sera fa, durante la presentazione di un libro scritto da un’amica di lunga data, mi è tornata in mente zia Mimì. Una delle cugine di mia madre aveva avuto, in gioventù, la tubercolosi. Si era in guerra, tutto scarseggiava, Mimì era di salute cagionevole e si ammalò. La mandarono in un sanatorio di montagna, lontanissima da casa, lontanissima da quei pettegolezzi sorti intorno alla sua persona, lontanissima dai possibili fidanzati che avrebbe potuto avere e che non ebbe. Come un’eroina romantica alle prese con una malattia che allora non perdonava, non ebbe tuttavia ne’ il conforto di un’opera lirica dedicata, ne’ tantomeno la pietà o la compassione dei compaesani perchè, una volta tornata a casa, perfettamente guarita, fu scansata come se fosse affetta ancora dal mal di petto che l’aveva tormentata da ragazza. Anche in famiglia il male fu tenuto “ al guinzaglio “, nessuno ne parlava era qualcosa che “ faceva vergogna “. Seppi da mia madre, moltissimi anni dopo e dopo che zia Mimì sposò un ricco vedovo di un paese vicino al suo, che la tubercolosi non aveva avuto la meglio su quella donna. Mi fu raccontata tutta la storia di Mimì, alla sua morte avvenuta in tarda età, in barba alle maldicenze e ai pettegolezzi. Perchè, dunque, mi è tornata alla memoria Mimì? La presentazione del libro dell’amica è stata una di quelle occasioni durante le quali si raccolgono intorno all’autrice e al relatore, un nutrito gruppo di amici e conoscenti già al corrente di quanto è raccontato nel libro e perchè. Non vedevo A. da tempo e solo per caso ho saputo di questo suo approccio alla scrittura. Il libro racconta della malattia del marito che una mattina si è svegliato completamento paralizzato, affetto dalla sindrome di Guillain Barré. La disperazione iniziale dell’amica ha dato spazio alla speranza, nonostante le conseguenze e lo stato di infermità invalidante, del suo compagno di vita, che ancora è presente. La scrittura, sotto forma di diario, riporta le riflessioni di una donna dalla vita normale, per certi versi banale, madre e moglie a tempo pieno, la cui vita si trova in una mattina qualsiasi nel pieno di un dramma. Perchè Mimì, allora? Perchè l’approccio alla malattia è diventata esperienza da consumare, quasi da sbandierare. Mimì ha dovuto nascondere come una colpa la sua esperienza di vita, adesso invece si racconta di tutto e con dovizia di particolari. La scrittura vale come catarsi, la scrittura è liberatoria, ma sono convinta che il dolore di una malattia debba portare con sè un minimo di pudore e la disperazione debba trovare il tempo di stemperare in tempi lunghi quando tutto assume il contorno di un ricordo.

I mocassini di Vittorio Sgarbi

scarpeIn una domenica di fine settembre, luminosa e smaltata d’azzurro, una moltitudine si accalcava davanti alle porte dell’antica dimora degli Svevi.

Un castello assediato da una folla multicomposita e vociante, poteva ingenerare nell’ Osservatore distratto e ignorante, nel senso che ignorava ciò che accadeva lì in quel momento, il pensiero peregrino che in quel preciso istante in cui il suo cervello tentava di elaborare una ragionevole spiegazione, poteva svolgersi proprio lì, nel castello davanti casa sua, l’evento del secolo, magari un’audizione di X Factor, perché no?

Speranzoso, l’Osservatore distratto e ignorante, si armò di pazienza e posto se stesso in una condizione di OsservatoreDistrattoeIgnoranteImpegnatoaStareInUnaFilaCivileeComposita  cominciò ad attendere per vedere quel che accedeva lì dentro.

Il sole a settembre, quando è di buzzo buono è impegnato, anche lui, a stazionare, e scotta le carni alla stessa maniera che in agosto; quella domenica così faceva sulla vistosa alopecia dell’Osservatore che, porca l’oca, aveva dimenticato il berretto al bar di Peppino qualche strada più in là. Andare a prendere di corsa – di corsa, con le sue gambe?!? –  il copricapo e tornare indietro? Non se ne parlava proprio! L’Osservatore aveva intuito, intanto che stazionava tra i tanti, che una volta abbandonata la postazione non avrebbe avuto più modo e maniera di ritornare dov’era. Si guardò intorno nella speranza di scorgere qualche compagno di merende… macché scomparsi nel niente, neppure uno a condividere la curiosità per quell’insolito insieme! L’Osservatore cavato il giornale piegato, che aveva infilato poco prima nella tasca del pantalone marron – sempre quello, il pantalone che la santa donna di sua moglie tutte le domeniche gli faceva trovare sul letto matrimoniale, si fosse mai sbagliata una volta! – si riparò la testa sudata come meglio poteva con la Gazzetta dello Sport.

Ad un tratto l’allampanata proprietaria di un cespuglio di capelli – boccoluti e rossi di una tintura appena fatta, un papocchio disposto sulla sommità di una testa in continuo movimento – con voce squillante richiamò tra i tanti, due classi di alunni del locale liceo scientifico. La folla parve dividersi come succede ad un’ ameba privata dei suoi pseudopodi, cambiò forma, ma ebbe un’accelerazione in avanti quasi che il distacco di una parte importante della fila avesse aperto nuove possibilità di fuga verso l’ingresso al castello, finalmente. Travolto dall’empito dell’ameba nel guadagnare terreno verso l’ombra, a malapena l’Osservatore mantenne la posizione eretta per via dell’età e delle gambe malferme. Si trovò sotto l’arco d’ingresso dove due signore, con fare spiccio, sfoltivano la fila con un: I minorenni di qui! Quando fu il suo turno all’Osservatore venne d’istinto fare lo spiritoso con un: Minorenne anch’io… una volta! Lo gelò lo sguardo superbo e spocchioso della donna più anziana – una coetanea, chissà! – che considerato l’aspetto dell’Osservatore non conforme a quello di coloro che frequentavano i Festival di Letteratura  gli disse, quasi sull’orlo del pentimento per averlo detto: Si sbrighi, il Dialogo sta per iniziare! e lo fece passare per la stessa via attraverso la quale passavano i minorenni. Un Dialogo?!? si disse l’uomo, perché è di questo che si trattava. Ebbe conferma di essere incappato in una trappola quando lesse il manifesto esposto nell’atrio del castello: Condividere.  E mo’ come me ne esco? pensò. Ma i minorenni dietro di lui premevano e lui si fece contagiare da quella strana euforia, dalla corsa verso l’ignoto.

Scese le scale che portavano al cortile interno e stentò a credere ai suoi occhi: c’era gente in ogni dove, tutti i posti a sedere occupati, moltissimi affacciati alla balaustra del piano di sopra, allineati vicini come colombi sui fili elettrici nei giorni di pioggia. Neanche quando il castello era carcere maschile s’era vista tanta gente! L’Osservatore senza perdere la speranza, occhieggiando qua e là, riuscì a trovare un posticino laterale in seconda fila, si sedette e aspettò. La proprietaria del papocchio rosso fuoco, agguantò un microfono ed annunciò i dialoganti. Presero posto in due, uno che pareva un gestore delle pompe funebri, vestito con un abito scuro simile a quello che l’Osservatore aveva indossato il giorno in cui aveva portato all’altare sua figlia – lo stesso che sua moglie, santa donna, da allora aveva infilato in una sacca di plastica in compagnia di tre o quattro pasticche di canfora, con la promessa che glielo avrebbe messo addosso solo in occasione del suo funerale; al solo pensiero di sé stesso vestito di scuro l’Osservatore metteva in atto una serie di atti scaramantici uguali a quelli che avrebbe voluto indirizzare verso il nerovestito, ma tutto sommato considerò che  non se lo poteva permettere, dato il contesto. Accanto al becchino prese posto una signora, una bionda giornalista, che se l’Osservatore avesse avuto una decina di anni di meno non avrebbe esitato a maneggiare. Fu annunciato il ritardo di un altro tizio che avrebbe dovuto essere lì, con i due.

Così iniziarono il Dialogo. Per quanta attenzione ponesse alle parole che ascoltava, l’Osservatore non riusciva mai a comprendere veramente. Si parlava di Costituzione e di bellezza, si parlava di libri. Per uno come lui, affezionato cultore di generi letterari colorati di rosa – il colore della Gazzetta dello Sport – la situazione che si era creata assomigliava tanto all’essere andato all’estero, parola più parola meno.

L’arrivo del ritardatario fu annunciato da un Ohhh fatto all’unisono dai presenti, che all’orecchie dell’uomo sembrò un boato in sordina, ma mica tanto. Fu a quel punto che l’Osservatore, finalmente, riconobbe qualcuno: ma non era colui che in televisione gridava sempre Capra! Capra! Capra! a tutti quelli che avevano la faccia di contraddirlo? Com’è che si chiamava? Lo trasse dall’impiccio di ricordare la biondina: Ecco tra noi Vittorio Sgarbi! Già già, si disse l’Osservatore, è proprio quello! Felice per essere riuscito a vedere, finalmente,  almeno uno famoso, già pensava al giorno dopo quando nel bar di Peppino avrebbe potuto raccontare, vantandosi, di essere stato ad ascoltare dal vivo Vittorio Sgarbi. Però non è che fosse vestito meglio di lui, si disse guardandolo. E poi bella panza, complimenti, Vittorio Sgarbi! Quello cominciò a parlare che sembrava un invasato e, mentre si agitava sulla sedia, anche i suoi piedi si agitavano sotto il lungo tavolo ammantato di verde. L’Osservatore guardò con attenzione i piedi nudi di Vittorio Sgarbi che entravano e uscivano da un paio di mocassini che parevano due pantofole sformate dall’abitudine del loro proprietario a compiere quel gesto di togli e metti non proprio in tono con la sua fama di esteta famoso. Vittorio Sgarbi rimase per un momento a piedi completamente nudi poi, tastando il terreno, si ricongiunse con le pantofole, pardon, i mocassini, sformati. L’Osservatore pensò che anche volendo lui non si sarebbe mai cavato le scarpe dai piedi in pubblico, mai, eccetto quando le scarpe andava a comprarle. Disgustato, si alzò lentamente e facendosi largo tra i tanti, cominciò a guadagnare l’uscita.

N.d.R. Eccetto che per l’Osservatore, uomo della strada compatibile, ma di pura invenzione, il resto della storia si è svolta così nella realtà dei fatti, in una domenica de I Dialoghi di Trani.

Il burkini che non porteremo

2013-03-velo7Qualche anno fa mi dilettai nella lettura di Harem un libro scritto da Vittoria Alliata, principessa siciliana, che proprio per il suo lignaggio fu accettata a visitare i luoghi delle sue sodali arabe. Il libro riportava il punto di vista di donne che vivevano chiuse in un recinto per sottomesse di reddito alto e che proprio per il loro stato sociale di donne ricche, sostenevano di essere compiaciute della loro condizione che permetteva, a loro dire, un potere occulto e non manifesto anche sugli uomini che le tenevano lì. Nel libro si racconta che La donna di ogni ceto sociale, nei paesi islamici, dispone in assoluta autonomia dei propri beni patrimoniali. E, poiché anche in Arabia il denaro è potere, non è esagerato sostenere che le donne detengono di fatto il 50% del potere economico del paese. Lo esercitano direttamente, come mercantesse, speculatrici, fondiarie, finanziere, o tramite agenti che operano per conto loro sia in patria che all’estero. In considerazione di quanto letto pensai, allora, che in fondo la condizione e di queste donne non era proprio da disperate. Il tempo, le maggiori informazioni, l’avvento di un fondamentalismo che sembra dilagare come la peste bubbonica, mi induce a considerare la cosa in altro modo. Vedo spesso giovanissime che indossano il velo, fiere di manifestare l’appartenenza ad un mondo che si vuole, che vogliono, diverso dal nostro. Rifuggono dall’uniformarsi a dettami sociali e religiosi che non riconoscono, pur vivendo in luoghi dove si rispettano regole e modi che probabilmente disprezzano. Ma realmente pensano questo le giovanissime donne che vedo muoversi, vivere, ridere, con altre coetanee non velate? Certo è un sacrificio minimo(????), probabilmente, coprirsi il capo, andare in giro anche in estate con palandrane atte a coprire braccia e gambe, pur di essere coerenti con se stesse, ma si tratta di coerenza oppure di costrizioni, di dettami arcaici che trovano terreno fertile in una ideologia maschilista e guerrafondaia? Cosa pensano realmente quelle bagnanti coperte di tutto punto di quell’orrido burkini, come possono nuotare ed essere a loro agio con tanti stracci sul corpo imbevuti d’acqua? E come possono essere atlete capaci, fasciate in tutine da sport di stampo islamico? Chiesi ad una mia alunna musulmana, non velata, se fosse una loro scelta quella di portare o meno il velo. Mi rispose che era l’uomo di casa, padre e marito, a decidere delle donne in tutti gli aspetti della loro vita. Lei e sua madre e le sue sorelle erano state fortunate a non ricevere nessuna imposizione. Quante sono le donne felici di possedere un burkini e di indossarlo? Quante sono le donne di fede islamica? Quante pensano realmente che i loro compagni di vita, i loro padri siano nel giusto a mortificarle fisicamente e mentalmente? Il 50% di un potere economico costituisce una forza enorme per una rivoluzione, pensateci donne in burkini! Non permetterei mai, a nessun uomo, di sindacare sulle mie scelte e di scegliere per conto mio un modo di vita sociale e una religione. Vedere donne così mortificate mi rattrista e mi fa credere che il mondo vada sempre da una stessa parte.

Lector in fabula ( e figurine )

Auguste Toulmouche, Dans la Bibliothèque
Auguste Toulmouche, Dans la Bibliothèque

Faccio collezione di figurine. No, non quelle dei calciatori o dei Pokémon, per quanto con quest’ultime potrei pavoneggiarmi con stuoli di cercatori di incrollabile e infaticabile fede e dall’età variabile. Faccio collezione di figurine virtuali. Il santo web permette raccolte di immagini che in altri tempi sarebbero risultate impossibili, salvo l’accensione di un mutuo ventennale spendibile nell’acquisto delle figurine Panini – e neppure quelle visto che a me dei calciatori non mi sconfinfera un bel niente. Colleziono, secondo il mio interesse e l’ingegno del caso, immagini di persone che leggono – e non solo. Nella scelta delle figurine non sono selettiva, tutto è accettato e accettabile. Si va dal manifesto grafico al preziosissimo quadro, dove la madama di turno è colta nell’atto della lettura oppure presa mentre è momentaneamente ferma, con il libro aperto tra le mani, e osserva il pittore che la ritrae in un gioco di vedi? sono istruita anch’io! In realtà, mettendo insieme alcune informazioni visive, vengono fuori delle riflessioni interessanti. Le signore dell’Ottocento amavano farsi ritrarre con un libro in mano: condizione manifesta del loro grado di istruzione, come dicevo poco prima? Oppure dello status che prevedeva, come corredo sociale, il possesso di una biblioteca casalinga? Sia come sia, una bella affermazione di (apparente) interesse verso la nobilissima arte della lettura – che attiene propriamente alle donne, perché le donne leggono più degli uomini e questo non lo dico io sola, la verità! Le donne dell’Ottocento e del Novecento leggevano senza distrazioni, lettrici dure e pure. Le fotografie più recenti di donne in lettura prevedono un corredo che, francamente, mi fa girare non poco le figurine: per risultare lettrici credibili, attualmente, bisogna avere all’attivo, nei pressi del luogo prescelto per dedicarsi alla nobile arte – il luogo è quasi sempre un bovindo, oppure una poltrona confortevole ammantata di un plaid in cashmere, il letto disfatto che fa pensare ad un prima e ad un dopo – l’immancabile tazza da mug con tisana, of course, maglioni oversize, il gatto acciambellato alla bisogna e il broncio assorto della lettrice incallita. Nel confronto mi sembrano più credibili, e in fabula, le madame d’altri tempi. Sarà la patina preziosa della rappresentazione artistica  a rendere accattivante l’idea delle donne lettrici credibili per sempre?

Ai lettori non si fa, Umberto

silhouette-gatto-nero_318-56999Non so per quale strana associazione di idee, caro professor Eco, alla notizia della sua morte – i figli,  che crudeli! mi ero appena alzata stamani e il piccolo mi fa: è morto Eco.  Ma come è morto Eco… ma ti riferisci ad Umberto Eco? Sì. Ma…come?!?… A questa notizia, professore, per associazione, mi sono venuti in mente i versi della Szymborska

Morire – questo a un gatto non si fa.
Perché cosa può fare il gatto in un appartamento vuoto?
Arrampicarsi sulle pareti.
Strofinarsi tra i mobili.
Qui niente sembra cambiato,
eppure tutto è mutato.
Niente sembra spostato,
eppure tutto è fuori posto.

Morire, questo ai lettori non si fa, Umberto. Perché è vero che morire è una conseguenza del vivere, ma quando si è vissuto con la sua bella testa, i suoi bei pensieri ragionati, l’ironia disincantata di colui che molto ha studiato e che molto aveva da studiare, perché di sapere e conoscere a detta sua – e la lezione l’ho imparata anch’io – non si è mai sazi, ecco è proprio una cosa che non si fa, morire. Se ci penso, adesso, cosa posso fare se non rileggere tutti i suoi libri? Già mi erano mancate le immancabili Bustine di Minerva, che cercavo prima di ogni cosa nel giornale dove erano pubblicate ogni settimana, iniziando al contrario, partendo proprio dall’ultima pagina, la sua, scritta con il piglio di chi ogni settimana si divertiva con le parole e con i fatti. Avevo poi smesso di comprare il giornale perché, difficile dirlo. Cambiano i tempi e cambiano anche le persone, certe cose di quel giornale non mi aiutavano più a capire. Ma ho continuato a credere, attraverso i suoi libri, che essere colti avesse ancora un senso in un mondo fatto di molte parole, ma di pochissima consistenza. E allora professore, mi sento come il gatto, oggi, nell’appartamento vuoto. Qui niente sembra cambiato, eppure tutto è mutato. Per quanto gatti, sentiremo la sua mancanza.

Benedetto sia Umberto e la nave di Teseo

s-la-nave-di-teseoRiporto integralmente l’articolo di Francesco Merlo su Repubblica di oggi. É una lunga intervista a Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi, che, insieme a Sandro Veronesi, Hanif Kureishi, Tahar Ben Jelloun hanno deciso di abbandonare l’orrido ” Montazzoli ” per fondare una nuova casa editrice, ” La nave di Teseo “. Il ” vecchio ” Eco, scrittore di 83 anni , che ha come prospettiva di vita partire da zero in un’avventura dal futuro incerto, in un’Italia poco incline alla lettura. Vale per tutto il suo ” Perché si deve “. Grazie di cuore a questo manipolo di ” eroi ” per avermi salvata dall’ennesimo acquisto mandadoriano!

Il punto della massima chiarezza è stato anche quello della massima oscurità, quando, racconta Umberto Eco, “si sono incontrate per non capirsi Elisabetta Sgarbi e Marina Berlusconi”, non donne incompatibili e incomunicabili per ideologia, ma per antropologia. È da quell’incontro che è nata ” La Nave di Teseo”, due legni arcuati e all’insù come simbolo, la nuova case editrice finanziata dagli scrittori, a partire dai due milioni di Umberto Eco che a 83 anni fa progetti con l’entusiasmo e i rischi di un ragazzo: “Perché il progetto è l’unica alternativa alla Settimana Enigmistica, il vero rimedio contro l’Alzheimer”. Velleitari? “Peggio, siamo pazzi”.

Ci mettono soldi anche un finanziere-scrittore, il dottor Brera (“sì, sono un parente alla lontana”) e Jean-Claude Fasquelle, un altro giovanotto di 85 anni, l’enigmatico ” grande vecchio” dell’editoria francese, noto per i suoi interminabili silenzi e per l’abilità nello schivare le interviste: lo chiamano “l’homme de l’ombre”. E infatti anche adesso, qui in casa di Elisabetta Sgarbi non c’è né lui né sua moglie “perché stanno perfezionando l’uscita dal vecchio lavoro” dice Eco in tono protettivo. La casa di Elisabetta è ricca di cose belle ma non preziose, è il lusso che non luccica. E l’intervista è il contrario di una conferenza stampa: con un unico giornalista, povero e solo, e una bella folla di conferenzieri, colti e famosi.

Capitale totale della nuova casa editrice? “Dai cinque ai sei milioni”. Dice Elisabetta: “Entro l’anno prevediamo 51 titoli”. Precisa la direttrice amministrativa: “Il peggio è previsto fra tre anni”. La sede sarà in via Jacini “generosamente messa a disposizione da Francesco Micheli”. La distribuzione e i servizi commerciali? “Gruppo Feltrinelli e Messaggerie, grazie a Carlo Feltrinelli e a Stefano Mauri”.

Di fronte a Eco ci sono Sandro Veronesi ed Edoardo Nesi. Accanto a Eco, come sempre, c’è Furio Colombo, un altro vecchio con i calzoni corti: “È una vita che io e Umberto ci dimettiamo, sin dagli anni Cinquanta. Io per esempio quando arrivò Berlusconi al governo lasciai l’Istituto di cultura italiana di New York”. E poi c’è Sergio Claudio Perroni, il Cellini degli editor, lo scrittore appartato che non è certo un magnate. Dice Veronesi: “Io lo faccio perché tengo famiglia. Ai miei cinque figli voglio lasciare un’eredità importante, una case editrice infatti è molto più dei miei libri e può davvero cambiare il paese. Rischio i soldi, certo, ma ne vale la pena”. Interviene ancora Eco: “Mio nipotino mi ha chiesto: Nonno, perché lo fai?. Gli ho risposto: Perché si deve” .

Ma non temete “l’effetto cooperativa”, quell’angustia di orizzonti culturali da mensa dei poveri, da “alternativi” all’ultima cena? “Non siamo improvvisatori”, dice Eugenio Lio, che è un altro azionista, il tecnico giovane, l’editore-talpa. Spiega: “Abbiamo una struttura professionale, mestieri, competenze, un presidente che è un commercialista, direttori e marketing. Siamo una società srl. Altro che cooperativa” .

Eco ammette che sanno di rischiare il magnifico fallimento. L’editoria infatti è il modo più elegante per dissipare i propri risparmi, magari in modo lento, ma sicuro. Inoltre in un’epoca non creativa, l’editore può essere destinato all’impotenza. Forse – osservo – un momento più brutto non potevate sceglierlo. Risponde Mario Andreose, che del catalogo della Bompiani è la storia, il Mendel di Zweig, l’artista che ha messo in opera le opere, da Brancati a Sciascia, da Campanile a Bufalino… Andreose crede nella catastrofe come risorsa e racconta che “Valentino Bompiani fondò la casa editrice nell’anno del crollo di Wall Street, nel terribile 1929”. E viene fuori che “Zio Vale” era il nome alternativo a “La nave di Teseo”. Racconta Eco, che con Valentino ha lavorato: “Ci davamo del lei. Tutti lo chiamavano ‘il dottore’. Ma dottore ero anche io. Per ovvie ragioni non potevo chiamarlo ‘conte’, come faceva la sua segretaria. Dunque gli dissi: “Io, in tutti questi anni, non l’ho chiamata mai e ora che vuoi il tu, ti chiamerò come i tuoi nipoti: zio Vale”. Tra i nomi bocciati ci sono anche Cyrano, Caratteri Mobili, Renzo e Lucia, Garamond… Vasa “che è il nome – spiega Eco – di un galeone svedese, ma non è stato accettato perché la casa editrice sarebbe diventata ”il Vasa da notte” .

Azionisti sono anche Elisabetta Sgarbi, Mario Andreose ed Eugenio Lio, tre campioni di “un mestiere che non si impara” come spiegava bene Kurt Wolff ( Memorie di un Editore, Giometti& Antonello) al quale Kafka diceva: “La ringrazierò sempre di più per i libri che mi boccia che per quelli che mi pubblica”. Dice Edoardo Nesi: “L’editore è una persona, non un’azienda. È un amico che ti segue e ti coccola, non un amministratore che firma contratti e stacca assegni. È il pastore delle tue opere: per 15 anni Elisabetta ha pubblicato libri miei che non avevano neppure l’ombra del successo, e senza mai rimproverarmelo. Non mi ha mai abbondonato. Come potrei non stare qui con lei, adesso? Come potrei non salire sulla Nave di Teseo?” .

Guardando Elisabetta, dico allora ad Eco: “Chi è Arianna?”. E qui il semiologo prevale sul maestro di ironia: “Teseo è solo un pretesto, un nome come un altro. L’importante è la nave, non Teseo”. Ed Elisabetta legge, come a teatro, il passo di Plutarco dove la nave di Teseo è quella che perde e sostituisce pezzi. Adesso nella bella stanza di casa Sgarbi è tutto un discutere di identità, che è il grande tema dell’architettura e delle città, è l’imbroglio delle religioni, e il rifugio delle migrazioni… A un tratto però Eugenio Lio dice pure che “Magris definisce Teseo colui che si alza e se ne va” . E a Eco piace: “C’è anche Magris tra gli autori Bompiani che sono pronti a seguire Elisabetta” . E Tahar Ben Jelloun racconta di un profumiere che aveva comprato la casa editrice che pubblicava i suoi libri: “Mi sono trovato senza un vero editore. Di che parlavo? Di fragranze, di nasi, di muschi? Elisabetta è un editore, la Mondadori–Rizzoli non è nemmeno un profumiere”. Ma ecco che, in collegamento Skype, interviene in casa Sgarbi, nientemeno che… Michael Cunningham. Anche lui seguirà il filo di Arianna. E così Nuccio Ordine, con tutte le sue traduzioni di Giordano Bruno, il don Quijote e il Montaigne che ha venduto 15000 copie: “Un’enormità per un classico”. E poi ci sono il triestino di Roma Mauro Covacich, la giovane e speciale neo-nevrotica Viola Di Grado, e Hanif Kureishi, che ha scoperto le periferie ben prima di Renzo Piano, e Lidia Ravera che sta volando ancora, e “l’abbandonologa” Carmen Pellegrino, la longseller Susanna Tamaro e, ça va sans dire, Vittorio Sgarbi, capra-capra-capra. Chiedo dei bestseller Paulo Coelho, Houellebecq e Piketty: “Mi sono dimessa stamattina, dammi il tempo di tessere il mio filo”.

Ecco dunque che Teseo è anche un filo da seguire. Ed è labirinto la libreria, come insegna Borges. E in Teseo c’è l’idea dell’amicizia che è la vecchia Einaudi, la Sellerio di Sciascia… lo statuto morale di ogni casa editrice. Infine c’è il mare che è l’avventura, il pericolo ma anche il porto che mescola le identità. Domando: siete tutti di sinistra? Eco si gira e prende la mano di Pietrangelo Buttafuoco: “In questo momento, tu sei di destra o di sinistra?”. E Buttafuoco: “Quando governa la destra sono di sinistra, quando governa la sinistra sono di destra”. E racconta: “Il mio primo lavoro è stato il libraio. So dunque quanto fanno male le super concentrazioni alla diffusione dei libri”.

Marina Berlusconi ha tentato di trattenervi? “Non ha capito – racconta Elisabetta – perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale. Neppure comprende a cosa possa servirci. Eppure le abbiamo offerto in cambio l’opera omnia di Eco, di cui Mondadori vorrebbe fare il Meridiano”. Eco racconta che rimarranno in mani nemiche Il nome della Rosa sino al 2020, e il Pendolo sino al 2018. Dice Veronesi: “Invece il mio Caos calmo è libero”. E Buttafuoco: “Anche il mio Le uova del drago è libero”. Dicono in coro Umberto Eco ed Elisabetta Sgarbi: “Non è contro Berlusconi che ce ne andiamo. Ed Elisabetta l’ha detto chiaro a Marina. Se il mega proprietario fosse Nichi Vendola o Fausto Bertinotti per noi non cambierebbe nulla”. Elisabetta ha spiegato a Marina che cosa significa “l’appiattimento dell’identità per un editore” e perché “i libri dei grandi autori raramente sono usciti da imprese gigantesche e perché i movimenti letterari più importanti della storia sono stati sostenuti e sviluppati da piccole realtà editoriali…” . Dice Eco: “Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito”.

E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne- capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell’industria culturale più grande e più decaduta d’Italia. E infatti l’una parlava di umanesimo cosmopolita e l’altra di azienda, l’una di autori da allevare e l’altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini.

La libertà di Elisabetta significava l’autonomia della Bompiani, dalla quale non voleva proprio staccarsi, “perché

sono monogamica, non mi separo se non quando sono abbandonata”. Crede nell’editore come lingua di un’epoca: tradurre e ristampare ma soprattutto scovare e covare. Inizierete presto a litigare? “Abbiamo smesso solo per te. Speriamo di ricominciare presto”.