Il pullover che mi hai dato tu

aran_teddies_1Un articolo in Alcuni aneddoti dal mio futuro mi ha puntualmente presentato il conto in termini di fatti accaduti o meglio oggetti appartenuti. Lì si parlava di maglioni e di anni ’80, e non solo di quello, anzi i maglioni erano marginali nel contesto, ma ho cominciato a ricordare ugualmente. Lavoravo allora presso uno studio associato ing + ark. Il mio ruolo era quello di disegnatrice tecnica, ma anche centralinista, PR con le maestranze che frequentavano lo studio, architetto di paesaggi e d’interni. Eravamo uno studio fresco d’impianto, si lavorava, ma anche no. Nei tempi morti mi riscoprii una insana passione per il tricot. Tricottare è come andare in bicicletta, una volta imparato non lo dimentichi più. Io avevo appreso in un memorabile triennio di scuola media, quando tecnologia si chiamava ancora educazione tecnica e la mia prof, poiché eravamo tutte bimbe, aveva pensato bene di insegnarci l’arte dell’uncinetto e della maglia ai ferri, piuttosto che le proiezioni ortogonali. Così mi procurai ferri da maglia, lana e cominciai a darmi da fare. In queste cose sono sempre stata piuttosto puntigliosa. Dovevo produrre un maglione, non mi accontentavo di approssimazioni e, con giornali alla mano, producevo maglioni. Venne fuori dalle mie mani ogni specie di sperimentazione laniera, maglioni irlandesi, vestiti di lana, giacche idrorepellenti. Alcune cose erano davvero ben riuscite, posso asserirlo con un certo orgoglio. Però la cosa contagiò anche una serie di persone che allora mi stavano vicine, le mamme, la mia, la mamma di mio marito, allora ancora fidanzato, la mamma dell’ark. E le mamme si sa, non hanno il tempo di modernizzarsi. La mia si esibì in un dolcevita ” cannolè ” che non avrebbe fatto una brutta figura neppure sul busto di Giovanna d’Arco prima dei suoi impegni in guerra, come cotta in maglia – e ferro? può essere. La seconda mamma, la suocera, decise ad un tratto che avrebbe dovuto mostrarmi la sua bravura nel confezionarmi un maglione primaverile in cotone. L’errore di fondo fu la scelta del colore, un terra siena bruciato mélange, triste triste. Poi la misura, oversize – è vero, sì, allora si usavano maglioni molto ampi, ma quello, di cotone, con l’uso si era ” appeso ” con conseguenze poco piacevoli. Ma potevo dispiacere alla suocera? L’altro esperimento fu fatto dalla mamma di V. l’architetto, che esibì per un intero inverno un maglione lavorata a grana di riso, con ferri del cinque e lana spessa un dito. Per l’occasione coniammo il termine ” maglione zerbino ” rimasto poi nel lessico famigliare. Adesso vedo in giro maglioni veri finti fatti a mano e ricordo. Il tempo di tricottare non riesco più a trovarlo. Attendo con ansia l’avvento di nipotini sui quali sfogare le mie velleità di tricoteuse. Così che anche loro possano ricordare, un giorno,  il pullover che mi hai dato tu.

6 risposte a "Il pullover che mi hai dato tu"

  1. siignoraingiallo 24 febbraio 2016 / 22:57

    Ohhh santi numi…che nostalgiche emozioni mi ha provocato il tuo racconto 🙂
    Ancora conservo in un angolo, il “portaferri” da maglia con annessa taschina per gli uncinetti ereditati da mia madre che non sono mai riuscita a superare in bravura 🙂

    • mizaar 27 febbraio 2016 / 20:04

      la mia era bravissima a ricamare. e pensa che da ragazza tesseva. aveva un bellissimo telaio dove confezionava tela di qualsiasi genere. poi s’è sposata 😦

  2. frz40 25 febbraio 2016 / 08:31

    Tenera…
    Un abbraccio.

  3. unpodimondo 2 marzo 2016 / 12:37

    Giusto ieri indossavo un maglione tricotato a mano, tanti anni fa da una zia per mio suocero. Mi sta enorme ma ogni tanto lo porto per rispetto a quelle due persone che non ci sono più… Però le mie colleghe tricoteuses si accorgono subito che è fatto davvero a mano!

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